domenica 29 dicembre 2013

I giochi della notte - Stig Dagerman

Ancora solitudini, ancora disperazioni, ordinate secondo un crescendo: nei primi racconti i protagonisti sono bambini e ragazzi, poi delle coppie adulte, e nell’ultimo c’è un vecchio.
Cosa fanno i bambini per cercare di proteggersi dalle brutture del mondo? Immaginano, si illudono di poter  controllare il mondo cercando di condurre i sogni nella vita.  
Così sono I giochi della notte che fa Aeke, per cercare di dominare l’angoscia determinata dai pianti e dai singhiozzi della madre e dall’assenza notturna del padre -  in quale bar, in quale bettola .
Il padre rientra , e “in cucina l'angoscia è così grande che sarebbe insopportabile senza un'arma, ma alla fine Aeke è talmente stanco di avere così tanta paura che senza opporre resistenza si lascia cadere a capofitto nel sonno.”
E di giorno?
Non resta che la fuga.

Comincia lì, nel  grumo dei  primi anni di vita, a mettere radice l’albero della tristezza, da cui gemmano man mano che la consapevolezza si fa più chiara e più forte, il senso di estraneità  e di disadattamento, e di smisurata solitudine.

Essere poveri aggrava.
In Nevischio e Carne salata e cetrioli, è il guardare le scarpe bucate a fare la differenza.
E la vergogna.
Ma il giudice che avevo dentro, che doveva essere più maturo dei miei nove anni, mi disse alla fine che avevo agito da autentico vigliacco: era rubare prendere quello che noi avevamo gettato via?

Nei racconti centrali, Lo sconosciuto, Uomini di carattere, Gli implacabili, l’attenzione di Dagerman si pone all’interno delle  dinamiche di  coppia: gelosia, incomunicabilità, disaffezioni, distanze.
Sono i racconti che, fatta eccezione per Lo sconosciuto, dalla conclusione drammatica e inaspettata, dato  il cambio repentino di prospettiva, mi sono sembrati più deboli .

La torre e la fonte è  il mio preferito.
Un epilogo, in tutti i sensi.

“Si limitava a star lì seduto, ora dopo ora, o magari anche anno luce dopo anno luce, pervaso da una crescente stanchezza. La stanchezza va molto bene, la stanchezza va sempre bene, in particolare quando ci si esercita nell'arte amara di essere prigionieri di se stessi. Anche una grande calma e una certa capacità di mantenersi freddi vanno molto bene, perché l'uomo deve avere i nervi molto saldi per potersi sopportare.”

Il viaggiatore - Stig Dagerman

Di Stig Dagerman non ne avevo mai sentito parlare. 
Eppure è stato uno scrittore molto apprezzato in patria - la Svezia - dal pubblico e dalla critica.
Un successo con il quale lo stesso autore, uomo inquieto, fragile e durissimo  soprattutto verso se stesso,  ha dovuto fare i conti. 
Insofferente verso ogni forma di “costrizione” e di “ingiustizia”, era vicino agli ambienti anarchici, aveva  curiosità multiformi e anche la sua produzione riflette la molteplicità dei suoi  interessi:  dalla poesia ai testi teatrali, dal romanzo al racconto breve, dal saggio agli scritti apologetici,  Dagerman è stato scrittore piuttosto prolifico, e probabilmente lo sarebbe stato ancora di più, se la depressione non avesse agito da bloccante negli ultimi anni della sua vita, se non l’avesse condotto al suicidio, a 31 anni, nel 1954.

Lascio sogni immutabili e relazioni instabili. Lascio una promettente carriera che mi ha procurato disprezzo per me stesso e unanime approvazione. Lascio una cattiva reputazione e la promessa di una ancora peggiore. Lascio qualche centinaia di migliaia di parole, alcune scritte con piacere, la maggior parte per noia e per soldi. Lascio una situazione economica miserabile, un’attitudine vacillante rispetto ai grandi interrogativi del nostro tempo, un dubbio usato ma di buona qualità e la speranza di una liberazione.
Porterò con me nel viaggio un’inutile conoscenza del globo terrestre, una lettura superficiale dei filosofi e, terza cosa, un desiderio di annientamento e una speranza di liberazione. Porterò inoltre un mazzo di carte, una macchina da scrivere e un amore infelice per la gioventù europea. Porterò infine con me la visione di una lapide, relitto abbandonato nel deserto o nel fondo del mare, con questa epigrafe:
QUI RIPOSA UNO SCRITTORE SVEDESE
CADUTO PER NIENTE 
SUA COLPA  FU L’INNOCENZA
DIMENTICATELO SPESSO”

E’ uno dei quattordici scritti compresi nella raccolta, quello che ne dà il titolo, "Il Viaggiatore".
Nove  i racconti: i personaggi sono gente comune, bambini e nonne, adolescenti, studenti e studenti che non possono più permettersi di esserlo. 
La Svezia si sente poco, nei racconti di Dagerman, e se non ci fosse qualche nome proprio, potrei dire che la radice storico-geografica non esercita alcun interesse sull’autore. 
Ci sono fattorie isolate ,  o appartamenti in condominio  in città anonime e grigie, e poco importa che si chiamino Uppsala o Stoccolma o Vattelapesca. 
Potrebbero  essere  campagne o  sobborghi  di qualunque  città occidentale  i luoghi dove si consumano piccole e grandi tragedie :  bambini colti nel momento della consapevolezza della loro misera esistenza, quasi invisibili (L’auto di Stoccolma), ignorati e snobbati (La sorpresa);  adulti travolti da un attimo che peserà   per sempre,  perché non si può  “avere indietro un unico minuto della sua vita per far sì che quest’unico minuto possa essere diverso” (Uccidere un bambino e Una tragedia minore, i due racconti secondo me più riusciti della raccolta).

In uno scritto postumo , “Stig Dagerman, lo scrittore e l’uomo”, l’autore così parla di sé, in terza persona:
Per quel che riguarda lo scopo Stig Dagerman non dovrebbe avere dubbi, dato che ha iniziato la sua carriera proprio manifestandolo: descrivere, in una forma congeniale alla propria personalità, l’essere umano nella sua lotta per liberarsi dal bisogno, dalla paura, dalla miseria, dalla bruttezza, dalla stupidità e dalle convenzioni contrarie alla vita.

E invece, di fatto, quello che descrive  non è la lotta, ma il momento del fallimento,  della sconfitta, della perdita , della rottura: l’attimo in cui il peso gravoso del bisogno, della paura, della miseria, della stupidità e dalle convenzioni contrarie alla vita sopraffanno l’uomo, e più in particolare il bambino, l’adolescente, e rivelano l’oceano di sofferenza nel quale, privati del candore dell’innocenza, saranno  condannati a vivere. 
Il peso che lui stesso non è riuscito a sopportare.

mercoledì 4 dicembre 2013

Il sentiero dei nidi di ragno - Italo Calvino

Pin
Chissà cosa farà Pin nella mano soffice e calma del Cugino, in quella gran mano di pane, dopo che avrà terminato di camminare insieme a lui nel mare di lucciole. 
Chissà se sopravviverà alla guerra partigiana, se acquisterà una coscienza di classe, se tornerà a tormentare gli avventori delle osterie con le sue canzonacce e con le battute, se diventato grande comincerà ad andare dietro le gonne delle donne, o le disprezzerà, come Cugino, se racconterà della sua avventura fingendo di esser stato Lupo rosso, se…

Pin è un bambino, ma non gioca con i piccoli come lui e non capisce i grandi, con i quali, di necessità virtù, finisce per trascorrere il suo tempo, bevendo vino gratis anche se non gli piace nelle osterie dei carruggi, fino a quando, per aver compiuto una bravata - che niente altro significava rubar la pistola al tedesco, mostrare quanto fosse bravo e coraggioso - finisce in galera, e poi dopo una rocambolesca fuga su per i monti coi il più scalcagnato gruppo di partigiani, quello del Dritto, che è malato, molto malato.
Di questo romanzo, il primo scritto da Calvino, è stato detto di tutto e di più ancora. 
Basta spulciare la pagina di wikipedia per trovare trama, analisi sistematica dei personaggi, dei luoghi, dello stile e del linguaggio, valore traslato etc. 
Ma nessuno potrà dire di questo romanzo meglio di quanto ha fatto Calvino stesso, nella prefazione scritta per la seconda edizione (versione corretta, e mannaggia la morte me la vorrei proprio leggere la prima per individuare le differenze) dopo quasi 15 anni dalla prima pubblicazione. 
La prefazione è davvero uno straordinario pezzo di riflessione sulla letteratura, sul neorealismo, sul bisogno di scrivere, sulla Resistenza, sul tempo in cui il furore ha incanalato l’individualismo in un “sentire” comune. 
Quanto ho adorato quella finta innocenza nel voler cambiare rotta e impostazione, quasi a voler rendere tangibile il furore, che davvero il furore è qualcosa che si sgancia dalla logica e dai programmi:

"(è meglio che riprenda il filo; per mettersi a rifare l’apologia del “neorealismo” è troppo presto; analizzare i motivi del distacco corrisponde di più al nostro stato d’animo, ancor oggi)"
"(Ora ho trovato il punto: questo rimorso. E’ di qui che devo cominciare la prefazione)"
"(Devo ricominciare da capo. M’ero cacciato in una direzione sbagliata: finivo per dimostrare che questo libro era nato da un’astuzia per sfuggire all’impegno; mentre invece, al contrario…"
"Devo ancora ricominciare da capo la prefazione. Non ci siamo. Da quel che ho detto, parrebbe che scrivendo questo libro avessi tutto ben chiaro in testa: i motivi di polemica, gli avversari da battere, la poetica da sostenere…"
E’ un Calvino ancora giovane, ma davvero è già tutto lì.