domenica 30 giugno 2013

Madre notte - Kurt Vonnegut

Madre notte è la fittizia autobiografia di Howard W. Campbell jr, internato nel carcere di Gerusalemme in attesa di essere processato dalla Repubblica di Israele per crimini di guerra. 
Ma chi è veramente Howard W. Campbell jr.? 

E’ solo la figura intellettuale di spicco della propaganda antisemita e nota voce della radio nazista, o, come sostiene, un agente dello spionaggio americano che, attraverso la modulazione vocale, informa gli alleati dei movimenti dei tedeschi? 
A me non importa. In entrambi i casi è una figura biasimevole. 
Dando per buona la sua versione dei fatti, ovvero che è una spia al soldo degli americani, è biasimevole ugualmente. Fa dell’inautenticità della vita la sua personale modalità di relazione con il mondo. Campbell aveva la sua ragione di vita nello Stato di due, nella relazione con la moglie Helga. Disprezzava il resto del mondo, offuscato dal sublime miracolo di una fede senza dubbi, che non riconosce le sue intrinseche contraddizioni. La falsità, l’inganno come codice di vita. “Non mi sono mai detto posso fare a meno di questa o di quella realtà”. 
Spie, ingannatori sono anche le persone più vicine a Campbell, l’amico Heine Schilaknecht, l’innamorata Resi, il vicino di casa Kraft . 
Poi un’idea guizzante come un’anguilla s’insinua, e guardi oltre i personaggi che vivono il libro, cogli il mondo in cui essi agiscono. Ed è un mondo orribile. 
Tutti sanno e sono - se non complici - indifferenti. 
Campbell riferisce rispetto alle idee antisemite che propagandava alla radio nazista: “non ci credevo, sapevo fin troppo bene di dire cose stupide, distruttive, e così ridicole da essere perfino oscene”. 
Ma tanti ci hanno creduto, o hanno fatto finta di niente. 
Madre notte non è solo il riferimento tratto dal Faust di Goethe che Campbell attribuisce a se stesso. 
Madre notte è il dominio dell’indifferenza, dell’oblio dell’evidenza, il dissolversi della chiarezza e dell’onestà. 
La notte cala troppo spesso sull’anima e sulla mente degli uomini, che fanno qualunque cosa per uscirne vivi, mentendo o seguendo braccia forti da cui si può essere stritolati, nascondendosi negli angoli, appiattendosi ai muri. 
A me tutto questo non piace affatto. Non mi piace la fede senza domande e soprattutto non mi piacciono l’assenza di coerenza, la mancanza di coraggio, l’indifferenza e l’indifferenziato.  
Tra bene e male c’è differenza. 
E si può scegliere. 
Voglio credere che si possa sempre scegliere tra bene o male. 
Campbell, lei è colpevole, in ogni caso.

sabato 29 giugno 2013

Il partito preso delle cose - Francis Ponge

Descrivere la matericità, la fisicità del mondo in una prospettiva che escluda il dato sentimentale, affettivo, filosofico, concettuale, per concentrarsi sulla "essenza" delle cose, e guardarle con occhi nuovi.
Ponge induce a osservare la materia e a percepire le "cose" in modo tale che il lettore-soggetto pensante, sia sospeso e messo a parte di fronte alla "evidenza" ontologica degli oggetti descritti. 
Le descrizioni danno a forme note (l'acqua, la candela, una giovane madre, il pane) una sorta di "vitalismo" anomalo, surreale. 
Non solo alberi e animali e persone, ma anche le pietre e i "ciottoli", materia inorganica per eccellenza, sono forme vitali inserite nel grande circuito del divenire universale, dotate di "evidenza" propria. 
E' questo il tentativo messo in atto da Ponge. 
Una sorta di "neo-naturalismo materialista"che invita a "riproporzionare" l'umanità, e "Appunti per una conchiglia" ne è il manifesto (ed uno dei segmenti più riusciti). 
Tuttavia. 
Il titolo originario del libro è "Parti pris des choses, compte tenu des mots". 
Non si può fare a meno di "descrivere" senza tener conto del linguaggio, delle parole. 
Molte, troppe pagine "grondano" di retorica. 
(di insostenibile retorica)


* altre divagazioni e alcuni poemetti



giovedì 20 giugno 2013

Diario di Irlanda - Heinrich Böll

In 50 anni cambiano moltissime cose. 
Soprattutto se i 50 anni in questione sono quelli che separano l’oggi dalla metà del secolo scorso. 
(25 anni vedevo come fantascientifica, nonché desiderabilissima, l’ipotesi di poter telefonare e vedere contemporaneamente le facce, che certi silenzi, certi borbottiì, senza gli occhi non riuscivo a decodificarli)

L’Irlanda raccontata da Boll nel 1957 era diversa da quella di adesso. 
diario d'irlanda - boll
Di sicuro ora si emigra di meno, di sicuro ci sono meno preti in giro, di sicuro le donne, “le creature operose di questa terra”, hanno trovato posto nelle bettole tra il whisky e la birra. 
In epigrafe al libro Boll scriveva: “Questa Irlanda esiste: ma chi ci va e non la trova, non può chiedere risarcimenti all’autore.” 
Sono contenta di esserci andata prima di aver letto il libro. 
Dominano i miei ricordi il verde e la pioggia dolce, i cimiteri trafitti da centinaia di croci celtiche, l’attesa che un lepricano spuntasse da un sasso muschioso degli infiniti pascoli (è incredibile quanto sia verde, l’Irlanda, anche alle porte di Dublino) e quel gusto che definirei “pittoresco” prendendo a prestito il termine dalla storia dell’arte, nel lasciare in stato di finto abbandono le rovine delle antiche abbazie.
“…non si avverte traccia alcuna di violenza. Il tempo e gli elementi con infinita pazienza si sono divorati tutto quello che non era pietra e dalla terra crescono cuscini su cui le ossa si posano come reliquie: il muschio e l’erba.”

Se l’avessi letto prima, non l’avrei trovata, l’Irlanda di cui Boll racconta, perché mi sarei ostinata a cercarla. 
E invece.
“IL folklore è un po’ come l’ingenuità: quando ci si accorge di averla, si è già perduta”

sabato 15 giugno 2013

Una sposa conveniente - Elsa Chabrol

«Non voglio che altri lesinino sulla mia lapide o scrivano chissà cosa. Così sono sicura che non ci saranno errori.»
Aveva dunque scelto con cura dei caratteri stilizzati:
JULIETTE VIALAS 1904-2004
Fui come siete, sarete come sono “

La lapide di Juliette è in bella mostra nella sala, accanto al televisore. 
Elsa Chabrol
Certo, avrebbero dovuto cancellare e riscrivere la data di morte, ormai il 101 compleanno era stato superato e la vecchiarda era ancora in piena forma.

Juliette è un personaggio formidabile, così come tutti gli altri abitanti di Polingeac, un borghetto sperduto nelle Cevenne, collegato al resto del mondo dal televisore e dalla automobile dell’unico giovincello ultraquarantenne rimasto in paese, Pierrot. 
E’ lui che si occupa di fare la spesa e portarla a domicilio e si prende la briga di tutte le riparazioni occorrenti – tetti, lavandini, cavi elettrici - ai suoi quattro compaesani –anzi, per l’esattezza ai suoi nove compaesani.

Così come si irrigidiscono le articolazioni, un cric ad ogni passetto, così si irrigidiscono le posizioni mentali, nei vecchi. 
Si impuntano, fanno dispetti. 
Perdono l’elasticità mentale, la capacità di aprirsi agli altri. 
Diventano sommamente egoisti. 
(nonché scassacazz)

A Pouligeac i vecchi si detestano più o meno tutti, e i rapporti di vicinato sono inesistenti: ognuno è rinchiuso nella monade della propria cocciutaggine. 
Negli anni si sono inaspriti i rancori, e l’incapacità di scambiarsi anche il saluto diventa abitudinaria come il clap dell’orologio. 
Solo un evento straordinario – manco la guerra, figurarsi un funerale – riesce a scuotere i vecchiardi dalla loro chiusura. 
C’è un pericolo da sventare, un terribile pericolo contro cui fare corpo comune: trovare una donna al Pierrot aggiustatutto per evitare che se ne vada dal borghetto, pena la propria sopravvivenza. 
Un moto niente affatto altruistico, la verità.

La vicenda, raccontata con ironia e briosità, non andrà proprio secondo i piani, ma alla fine tutto si concluderà bene. 
In questa fiaba dolce e sarcastica ci sono molti luoghi comuni, ravanati fin al fondo del barile, però la leggerezza e la caratterizzazione straordinaria dei personaggi, Juliette e Léonie la talpa sopra tutti, fanno chiudere un occhio. 
Anzi, strizzarlo.
(magari fossero tutti davvero così, i vecchi)

domenica 9 giugno 2013

Educazione siberiana - Nicolai Lilin

Ho fatto fatica a terminare questo libro. Ho dovuto resistere alla tentazione di abbandonarlo, perché mi ha inquietato, indignato, offeso. Mi ha costretto a superare delle vere e proprie barriere mentali. 


Prima barriera. 
Ho dovuto accettare che il contenuto della narrazione è vero. Ed è vero, come è vera la mia realtà, che è anche quella di Gomorra. Con una differenza sostanziale: Saviano racconta ciò che sa e deduce, Lilin racconta ciò che ha fatto  e gli hanno insegnato e raccontato. 
Educazione siberiana è il racconto autobiografico   di Nicolai Lilin, criminale onesto, cresciuto in Transnistria, ex URSS, ora stato indipendente ma non riconosciuto , situato tra la Moldavia e l’Ucraina. Economia “legale” basata sul commercio d’armi. 
(mica sapevo che esistesse la Transinistria, e invece pure esiste, anche se de facto, come dice Wikipedia)

Seconda barriera. 
Lo stile. Chissenefrega. Scritto di propria mano, con l’aiuto di un curatore, sotto dettatura, ma chi se ne frega. Nicolai da bambino, nelle risse, taglia “ai nemici” i legamenti dietro le ginocchia con il coltello, da adolescente crivella di proiettili di una Nagant un’auto con cinque persone nude dentro. Pretendere, dal racconto di un tale modus vivendi, uno stile curato, colto e articolato è mettersi a pettinare le foche e a fare le treccine ai calvi. 

Terza barriera. 
Il mondo criminale non è omogeneo: ci sono criminali onesti. Questo è stato il paradosso più difficile da digerire, l’ossimoro più complesso da comprendere. Lilin è cresciuto nella comunità criminale degli urca siberiani, criminali onesti che disprezzano la criminalità “disonesta”. 
Gli Urca siberiani sono duri e puri perché difendono la loro integrità culturale. E la difendono da chi viola le regole siberiane: nessun offesa alla religione, nessun offesa all’autorità degli anziani, nessuna offesa ai disabili, considerati voluti da Dio e perciò accolti e protetti dalla comunità, nessuna offesa alla comunità, nessuna offesa alla libertà individuale se codificata dal gruppo. Per questo motivo, nessun accordo con i criminali disonesti, che preferiscono la logica individualistica del profitto a quella familistica della condivisione e del sostegno reciproco, e soprattutto nessun accordo con la criminalità di Stato, che già in età stalinista ha sradicato la comunità attraverso le migrazioni forzate, e obbliga per legge al lavoro, obbliga alla leva, sfrutta il lavoro degli umili e le ricchezze della terra. 
Ma chi è “maleducato”, per un siberiano, ci rimette la pelle. 

Quarta barriera. 
Superare l’orrore della violenza, soprattutto quella del carcere minorile, e quella dell’ospedale. 
Tutti, guardie e criminali, criminali e infermieri, accumunati da una brutalità impietosa. Ma non vedere non cancella ciò che c’è o c’è stato. 

Quinta barriera. 
Riconoscere che Il mondo criminale, in tutta la sua scala gerarchica, è dannatamente esecrabile, ma il resto del mondo spesso non lo è di meno.