mercoledì 27 novembre 2013

Il libraio che imbrogliò l'Inghilterra - Roald Dahl

il libraio che imbrogliò l'Inghilterra
Io mica lo sapevo (e quando mai) che Dahl aveva scritto anche testi non destinati propriamente ai fanciulli. 
(che quelli per i fanciulli mica è cosa brutta e ingiusta leggerli da adulti) 
“Il libraio che imbrogliò l’Inghilterra” è uno dei due racconti contenuti nel volumetto, l’altro è Lo scrittore automatico. 
Un libro da seduta in ambulatorio medico, da fila alla posta, da attesa alla metropolitana, insomma, un libro ideale per ammazzare un’attesa, data la sua brevità. 
(o quando càpitano certi periodi in cui si riescono a leggere al massimo tre/quattro pagine con l'occhio a tre/quarti d'asta la sera nel letto)

Ho molte perplessità sullo stile dei racconti, sulla caratterizzazione dei personaggi, sulla caratura dei dialoghi, poiché conservano l’impronta “semplice” dei libri per ragazzini. 
Ad esempio, il libraio imbroglione e la sua segretaria mi hanno ricordato, seppur poco ci somiglino, i signori Sporcelli, untuosi e poco attraenti : 
“Era tozzo, panciuto, calvo e flaccido, e quanto al viso le sue fattezze si potevano al massimo divinare, perché la vista non poteva quasi nulla. Il volto era in gran parte coperto da un’estesa boscaglia di peli neri, ispidi e leggermente ricciuti; “

Però l’idea di fondo di entrambi i racconti mi sembra assai stuzzicante. 
Su cosa possono contare gli imbroglioni della prima storia, se non sull’idea che certe letture sarebbe stato meglio non averle fatte? 
Se si scopre che ciò è accaduto, meglio liquidare in fretta il passato, chiudere la partita e non parlarne più. 
(devo ricordarmi, prima di morire, di far sparire tutti i libri di Fabio Volo dalla mia libreria)
Nel secondo racconto, un inventore (pazzo), reduce dal successo planetario che l’azienda per cui lavora ha ottenuto grazie ad un calcolatore di sua invenzione, e mosso da un impeto di frustrazione e rabbia (mica a tutti riesce di far bene gli scrittori), propone al suo capo una macchina che inventa i racconti, le storie, in modo da saturare totalmente il mercato con i prodotti elaborati dalla macchina, buoni per tutti i gusti, per tutte le mode.
Addirittura migliori di qualunque altro prodotto della penna e creatività umana. 
“Non l’ha fatto per soldi. Ne ha da buttar via.” 
“E perché, allora?” 
Knipe sogghignò, alzando il labbro e mostrando una gengiva superiore lunga e anemica. “Semplicemente perché ha visto che la roba scritta dalla macchina era migliore della sua.”.
Quella che ho riportato è la spiegazione che l’inventore fa al suo capo del perché una scrittrice famosa, e danarosa,  ha acconsentito all'accordo di  mettere la propria firma su un prodotto della macchina.
L’ipotesi che porta all’invenzione dello scrittore meccanico è che come un elaboratore può combinare i numeri risolvendo calcoli impossibili per la mente umana, così uno “scrittore meccanico” può combinare lettere, frasi, parole, trame molto più efficacemente della mente umana. E' assai discutibile come principio, non c’è dubbio, ma non è questo il punto.
Quando Dahl ha pensato al racconto probabilmente non esistevano ancora le scuole di scrittura creativa e neanche le strategie editoriali che fanno di libri pezzotti e appezzottati dei best sellers venduti anche al supermercato , e io non so perché, a questo ho pensato, leggendo lo scrittore automatico. 
Alla preveggenza. 
(e ai generatori automatici, al momento solo di stupidità, ma chi può mai dire domani?)

sabato 23 novembre 2013

Bouvard e Pécuchet - Gustave Flaubert

Il romanzo incompiuto di  Flaubert racconta di due tizi  di mezza età che s’incontrano casualmente in un parco, e seduti alla stessa panchina, si accorgono che entrambi hanno scritto il proprio nome nel cappello.
Quale affinità di pensiero!
(anche dove lavoro io, data l’abbondanza di ombrelli ikea tutti uguali, si è ricorso alla penna per segnare il nome del proprietario sulla fettuccia). 
Nasce un feeling, si frequentano, si scambiano visite di cortesia e, complice una cospicua eredità caduta sul groppone   di uno dei due, decidono di comprare un podere e di ritirarsi in campagna, che la vita parigina li ha un tantinello stufati. 

E qui comincia la loro avventura: di palo in frasca si improvvisano (che non basta mica leggere anche una decina di manuali disciplinari, a cui diligentemente fanno ricorso) agronomi, massai, chimici, astronomi, geologi, archeologi, collezionisti di cianfrusaglie, linguisti, grammatici, storici, politici, rabdomanti, filosofi, oratori, amatori, ginnasti e salutisti, educatori e pedagoghi. 
S’appassionano ad una  disciplina, ad un  campo di ricerca o del sapere, tentano di applicarla, di farla propria, di eviscerarla, di scandagliarla nei minimi anfratti, e falliscono miserevolmente. 
Senza perdersi d’animo riprovano con altro, in un moto che non finisce manco con il libro, essendo esso stesso incompiuto (e la fine sarebbe stata un moto incessante di scopiazzature)
“Qual è il fine di tutto ciò?”
“E se non ci fosse alcun fine?”
“Eppure!” e Pécuchet ripeté due o tre volte “eppure” senza trovare nulla da aggiungere.
Un’estenuante, ma proprio estenuante ricerca di senso  e di verità che li conduce persino sull’orlo del suicidio (ma l’afflato religioso dello spirito del Natale li distoglie, facendoli per breve tratto dedicare alla religione, pure questa, al pari di  tutte le altre scienze e filosofie, al banco di prova dell’indagine ossessiva e compulsiva , si rivela incapace di soddisfare la sete di verità assoluta e inoppugnabile  di Totò e Peppino, no, pardon, di Bouvard e Pécuchet)

Il manoscritto di Flaubert si interrompe allorquando i due protagonisti, falliti i tentativi di educare i due orfanelli avuti in custodia (che lombrosamente conservano in modo irreversibile le tracce delle loro radici, figli di delinquenti e come tali destinati a perseverare nel male), decidono di educare gli adulti. 
La nipote  dello scrittore ha aggiunto degli appunti che “rivelano” il piano dell’opera,  le cui righe finali così recitano: 
“Che dobbiamo farne? “ – “Niente riflessioni! Niente riflessioni! Copiamo! Bisogna che la pagina si riempia. Che il ‘monumento’ si compia… uguaglianza di tutto, del bene e del male, del bello e del brutto, dell’insignificante e del caratteristico. C’è verità solo nei fenomeni.”
Finire con la visione dei due buonomini chini sul loro scrittorio, e che copiano."
Su questo finale appena accennato, i critici si sono arricreati proprio, come ha fatto Franco Rella nella introduzione e come riporta la quarta di copertina: 
Destrutturano il sapere del secolo, e forse, nella decisione finale di copiare qualsiasi cosa, svelano l’insignificanza anche dell’ultima illusione flaubertiana, la scrittura quale mezzo per dare un senso alle cose.
(la copia è la risorsa unica di chi non ha pensiero proprio)

E’ un libro che avrei trovato interessantissimo se l’avessi letto una vita fa, quando ancora era vivo e vegeto  un certo scrupolo accademico  (una proposta di tesi di laurea su B e P, uammamà!, e quanta trippa!). 
Ma ne è passata acqua sotto i ponti, e dopo le prime 80 pagine  l’estenuanza (lo so, non esiste sta parola, embè?)  ha avuto il sopravvento, e poco divertenti mi sono sembrate le goffaggini, le ingenuità, le incornature, gli sfottò e l’enorme ammasso di riferimenti a filosofi, scrittori e compagnia cantando. 
Tutto per niente. 
Le appendici Dizionario dei luoghi comuni, Catalogo delle idee chic, e Sciocchezzaio, almeno quelle, le ho bellamente ignorate.



(e ancora per la serie Vanità delle vanità, è anche qui
http://www.ilpickwick.it/index.php/letteratura/item/854-bouvard%C3%B2-e-p%C3%A9cuchett%C3%B2-flaubert-ti-voglio-bene-per%C3%B2-ora-no


giovedì 21 novembre 2013

Il Profumo - Patrick Süskind

Vi è un qualcosa un qualcosa di eccessivamente morboso, nel libro di Süskind. 
(l’ossessione) 
E di geniale, in un certo senso. 
(il fiuto del successo)

La storia è quella di un uomo, tale Grenouille, nato, anzi, espulso dal grembo di donna tra le interiora dei pesci, sotto un bancone al mercato; un uomo che è stato fin dall’inizio un “…mostro. Si decise a favore della vita per puro dispetto e per pura malvagità. Naturalmente non decise come decide un adulto, che per scegliere fra varie opzioni usa la sua più o meno grande ragionevolezza ed esperienza. Ma decise al modo di un vegetale, così come un fagiolo gettato via decide se deve germogliare o se è meglio lasciar perdere” pag. 26 

Ecco, di fronte alla “consapevolezza del fagiolo” (o della zecca), non ho potuto trattenere un fremito. 
(preferisco credere all’esistenza di un binario 9 e ¾ da cui parte il treno per Hogwart, piuttosto che a quella di un bambino che nasce malvagio).

Grenouille, il mostro, è un essere dotato di un olfatto straordinario, ha il potere di percepire e distinguere e memorizzare ogni tipo di odore. 
Egli però, come tutti i geni e i “fuori norma” della letteratura, è un uomo profondamente solo. 
Per sette lunghi anni si basta da sé, si allontana dagli uomini e si rintana nel buco del culo della grotta della montagna più alta di Francia, diventando, attraverso la sua memoria, il sancta sanctorum dell’esistenza olfattiva del mondo. 
(l’odore è la sua mancanza e la sua ossessione) 
Ma Grenouille è un malvagio, e come tale non può rinunciare all’ambizione propria di tutti i malvagi, ovvero a quella di “dominare il mondo”. 
L’ immaginazione prima, l’ abilità tecnica, la totale impermeabilità etica (è un mostro), la smodata ossessione (e ambizione), portano Grenouille, “colui che dominava gli odori”, a produrre un’essenza talmente potente da impossessarsi del cuore degli uomini, da piegarli all’adorazione. 
Una sottomissione talmente smodata da annebbiare qualunque remora controllo ratio. 
Tale intordundimento si esplicita in un’orgia collettiva: la folla stipata nella piazza, indistintamente, sollecitata dalle due gocce di profumo sul corpo inodore di Grenuoille, cade in preda alla compulsione copulatoria. 
E se due gocce hanno il potere di piegare la folla ad ogni tipo di pratica sessuale, cosa può mai succedere se Grenouille, il malefico detestatore dell’umanità, si versa addosso tutto il contenuto della boccetta ? 
E’ l’epilogo, ça va sans dire.

Si possiede totalmente solo quello che entra dentro, entra in circolo, dentro il corpo? 
Si viene posseduti totalmente solo da quello che entra dentro, entra in circolo, dentro il corpo? 
(sono posseduta da una profumatissima tavoletta di cioccolato fondente con nocciole intere) 
Ehemm.

“Il profumo ha una forza di persuasione più convincente delle parole, dell'apparenza, del sentimento e della volontà. Non si può rifiutare la forza di persuasione del profumo, essa penetra in noi come l'aria che respiriamo penetra nei nostri polmoni, ci riempie, ci domina totalmente, non c'è modo di opporvisi.” pag. 88 
Mah. 
Il libro esercita una sorta di attrazione morbosa, legata furbescamente alla centralità del potere di un senso, l’olfatto, ma a conti fatti, e fuori dalla metafora dell’uomo accecato dall’ossessione e in nome della quale si crea e si distrugge, è davvero solo puro macabro intrattenimento. 
Va bene, si può leggere tra le righe la critica ad una cultura che si crede “illuminata” e “illuminista” ma che di illuminato non tiene proprio niente (il fluidum vitale), ma tra le molte altre righe si possono leggere un montone di cavolate. 
Se è vero che la chimica degli odori è alla base di alchimie d’attrazione e di repulsione, è ancora più vero che non può esistere un odore universale così come non esiste un sapore universale.

Il senso dell’olfatto - il dominio, il controllo e la emozionalità degli odori, la loro pungente pervasività - e la creazione di un personaggio “originale” , avrebbero potuto davvero essere una chiave di volta per costruire un’opera di grande profondità. 
E invece.

venerdì 15 novembre 2013

Il tempo di una canzone - Richard Powers

Richard Power - il tempo di una canzone
Il tempo di una canzone dura quanto un assolo, e mille anni. 
Esiste ancora il razzismo? Non lo so, vedo a colori. 
Lo scontro, adesso, qui (e sempre e dovunque) non è tanto tra razze, quanto tra modus vivendi. 
Ma in America, almeno fino agli anni ’60, il fattore razziale non era bazzecola. 
Essere neri, o diversamente colorati, significava non essere bianchi, e dunque non essere. 
Powers scrive di questo (e di molto altro). 
Il filo conduttore è la storia di un pesce e di un uccello che si innamorano. 
I loro figli, cresciuti non ad occhio, ma ad orecchio, musica e canto formano le parole del pensiero, citazioni impazzite, mescolio di suoni che fondono le Storie dell’uomo, - Chi sono? Chi vorrai essere - , pensano che l’albero su cui i genitori hanno costruito il nido sia stato abbattuto, e volano oltre il cielo, (come angelo), o nuotano sotto l’ acqua (come pantera – sì, lo so, capirà chi legge il libro), o stanno immobili, trascinati dalla corrente (come foglia). 
Me è solo una questione di tempo. 
Relativa, molto relativa. 
“Il tempo non scorre, ma è. In un mondo così, tutte le cose che saremo o siamo stati, le siamo. Ma poi, in un mondo così, chi siamo deve essere tutte le cose.” 
Aprire gli occhi e vedere che il nido non era sull’albero, ma a pelo d'acqua, sul filo dell'orizzonte. 
Lì dove c'è il passato e il presente e il futuro, il melting pot e il sogno americano in tecnicolor. 
(ecco, forse sul finale happy happy we are the future non mi ci ritrovo granchè)

La storia di David e Delia, uccello e pesce, fisico ebreo tedesco bianco lui, cantante della classe alta nera lei, e dei loro figli "diversamente colorati", Johan, Joseph e Ruth, delle stirpi familiari dei vivi e dei morti, vengono raccontate dal secondogenito, e coprono il lungo secolo breve, mettendo in note conflitti interiori, familiari, di stirpe, di razza, di nazioni, di civiltà. 
La musica è il sottofondo costante. 
Musica che salva e che marchia, che unifica e che divide. 
Ma alla fine, si deve convenire, le note sono un alfabeto comune a tutti i linguaggi. 
Delia e David erano avanti, molto avanti. 
(non sempre i figli sono migliori dei genitori)

Se avessi avuto un minimo di conoscenze musicali (a parlar di suoni coi sordi è dura) me lo sarei goduto di più. 
Se fosse stato più breve, anche. 
Limiti miei, perché il libro è davvero bello.

domenica 3 novembre 2013

La lucina - Antonio Moresco

la lucina - moresco
La lucina è un breve romanzo , anzi, con le parole dell’autore all’editore, “ è una piccola luna che si è staccata dalla massa ancora in fusione del mio nuovo romanzo, che si intitolerà Gli increati. 
La lucina è nata da uno spunto di poche righe, solo una piccola scena annotata negli appunti che ho buttato giù per anni in vista degli “Increati”.
Ecco, leggendo questo libricino, non so se mi verrà mai voglia di leggere gli Increati, quando (e se, dato il titolo) sarà pubblicato.
Eppure La lucina è un libro che s’attacca, non passa via facilmente, perché induce il lettore a porsi un’infinità di domande, ancora più di quante se ne faccia il protagonista della storia, un uomo che decide di “scomparire” ritirandosi in un borgo abbandonato sulle montagne, avviluppato in una natura che sembra prendersi la rivincita sulla cultura, su tutto ciò che l’uomo ha costruito.
La natura, in un’ottica che si focalizza sulla lotta per la sopravvivenza, è descritta in modo struggentemente poetico, seppure violento e virulento. 
Tutto il paesaggio, gli animali, la vegetazione, perfino la crosta terrestre coi suoi sobbalzi, hanno una ferocia e una resistenza, una volontà di imporsi e di esistere, anche attraverso le tracce che del passato restano nel presente - come le foglie secche e gli animali morti che diventano humus e alimento per le nuove piante - da lasciare annichiliti. 
(il passo della farfalla che pure morta e stecchita non va giù nonostante i trecento scarichi del gabinetto, fin quando non viene avvolta nel sudario di carta igienica affinchè possa diventare più pesante ed essere trascinata giù dalla forza dell’acqua, è straordinariamente efficace).
La volontà di sopravvivenza e di continuità è la medesima nella specie umana, tale che non sembra piegarsi neanche nella solitudine più estrema, poiché vi è sempre un richiamo, una lucina, che riporta persino il più solitario degli uomini, a cercare il suo posto nel cerchio infinito della vita che travalica ogni cosa “visibile” e persino la morte.

Tuttavia. 
Non riesco a empatizzare con una visione così tragica della natura, mi sono estranei il senso doloroso del riprodursi, la violenza cosmica, la trascendenza ad un tot al chilo. 
Non potrei mai farmi domande sugli extraterrestri, chiedendomi se “La loro vita sarà infelice come la nostra? Anche per loro solo il dolore e il male porteranno distrazione, almeno per qualche istante, all’infelicità? Avranno anche loro quel sogno breve e crudele che è stato chiamato amore?” 
(e cazz, pure l’amore è un sogno crudele mò?) 
Inoltre ho trovato il libro molto debole nella trama, e pur riconoscendo che la storia in questo libro è un accidente periferico, essendo volutamente impregnata di vuoti, labile e fumosa come può essere la trama di un sogno , non riesco ad ignorare certe sequenze che, per il fatto stesso di essere state scritte, hanno un loro peso narrativo. 
Ecco, penso per esempio al sapore patetico della scuola dei bambini morti e al suo custode, attaccato per l’eternità al suo ruolo di bidello (e immagino che anche il maestro cattivo lo sarà per sempre). 
E poi. 
Detesto la pasta al burro. Mi viene una tristezza infinita solo a guardarla.