domenica 29 settembre 2013

La deriva dei continenti - Russell Banks


Banks Russell
La deriva dei continenti è un fatto scientificamente provato e inarrestabile.
Sul perché le zolle continentali si muovano, le teorie sono diverse e non universali.
Anche le masse umane, i singoli individui, sono spinti al movimento, e le cause,  non le teorie sulle cause,   sono diverse.
Trovare un filo comune a questa “necessità”  davvero appare  un disegno difficile e ambizioso: se Banks ci fosse riuscito, avrebbe scritto un capolavoro.

Nel libro si incrociano  storie di “migranti”.
Il  trentenne riparatore di bruciatori a nafta, Bob Dubois, vive nel New Hampshire:  ha una casetta, una barchetta, una Chevrolet scassata,  “Vota per i democratici, come faceva suo padre, di tanto in tanto va a messa con la moglie e le bambine e crede in Dio come ai politici: sa che esiste, ma non conta su di Lui. Ama la moglie e le figlie. Ha un’amante. Odia la sua vita.”
Lascia la sua vita, portandosi dietro moglie e figlie e Chevrolet, per cercarne un’altra più comoda, più agiata, più consona al  “sogno americano”.
Vanise è una giovane madre haitiana.
Lascia la sua terra, con il figlio attaccato al seno  e il nipote adolescente, non  per ricercare la felicità  ma per  sottrarsi alla morte sicura.
Crede nel potere dei Loa, sa  che il destino degli uomini conta poco di fronte agli invisibili, e l’altra morte, quella della dignità  che subisce durante il viaggio, la rende impermeabile alla sofferenza,  al rullio delle onde e alla brutalità degli uomini.
Sarà ancella  di Ghede e sopravviverà .
Bob e Vanise sono come due continenti alla deriva, anche se le cause del loro migrare sono diverse.
La deriva dell’uno e dell’altra li porterà a cozzare, a scontrarsi,  e dal loro  incontro non verrà fuori che altra desolazione e sofferenza.

L’idea di sovrapporre  l’urgenza della natura umana che spinge uomini a lasciare ciò che sono per una vita altra all'ineluttabilità del movimento  degli elementi  è affascinante,  ma in realtà Banks non è questo che fa.
Le giustappone soltanto.
Quello che tenta di fare, da bravo maestrino, è spiegare  - come se non lo si sapesse – attraverso le storie  di Bob e Vanise, che il mondo  con le luci e gli attici, il sogno di avere e possedere di più, la comodità, il gradino più alto da raggiungere, sono  la causa ultima di tutte le derive dei continenti rappresentati dai  singoli  uomini o da fiumi di uomini. 

La chiusa del libro, l’Envoi, mi è sembrata alquanto fumosa e contraddittoria (nonché presuntuosa).
Scrive Banks:
“Si scrivono libri – romanzi, racconti e poesie – infarciti di dettagli che tentano di spiegarci che cos’è il mondo, come se la nostra conoscenza di persone come Bob Dubois e Vanise e Claude Dorsinville servisse ad affrancare gente come loro. Non servirà. Conoscere i fatti della vita e della morte di Bob non cambia nulla nel mondo. Che noi celebriamo la sua vita e piangiamo la sua morte, lo farà. Gioia e lutto per la vita di altri, perfino vite del tutto inventate – anzi soprattutto quelle – priverà il mondo di parte dell’ingordigia che gli occorre per continuare a essere se stesso. Sabotaggio e sovversione, dunque sono gli obiettivi di questo libro. Và,  mio libro, e contribuisci a distruggere il mondo così com’è.”
( ????)
Ma se è davvero insito nella natura dell’uomo  cercare – o sperare nel cambiamento, -  a che è servito costruire il parallelo con la deriva dei continenti?
Qual è il sabotaggio, qual è la sovversione affidata al libro per privare il mondo  di parte dell’ingordigia che gli occorre per continuare a essere se stesso, e dunque per sottrarsi alla natura insita nell’uomo del cercare il o sperare nel cambiamento?
 Si stia buoni e fermi, sembra dire l’autore, meglio sovvertire l’ordine del mondo  accontentandosi di quello che si è e si ha.
(e sti cazzi.  Non è un caso che le  religioni che pospongono la felicità oltre la vita, sotto forma di paradiso o di giardini fioriti o di karma migliori,  si siano imposte in modo così  globale -  se non lo puoi fare qua, almeno ti si apra il contentino per dove e quando non si sa; stai buono e fermo,  perchè se invece segui la natura, tanti guai ne ricevi, punizioni, punizioni, inferni peggiori di questi!  )
Vanise,  affidandosi ciecamente alla forza di Loa, sopravviverà.
(Ma non vivrà mai più. Sopravviverà soltanto.)
Bob, cercando di far pace con la propria coscienza urlante, morirà.

Le storie di Bob e Vanise hanno una sorta di epicità – eroi negativo l’uno e positiva (? ) l’altra, e  si leggono anche voracemente, si è spinti a sperare  la giusta ricompensa  per Vanise,  non una vita da zombie  attaccata alle vesti del santone,  e  non si riesce ad odiare Bob,  nonostante i suoi errori, perché è un inquieto, tormentato dai un’inquietudine nella quale è addirittura possibile intravedere noi stessi.
Tuttavia, sarebbe stato davvero bello e molto più interessante  approfondire il tema  della deriva dei continenti nel parallelismo tra cieca forza geologica e istinto umano.
Bank non lo ha fatto.
Non credo che il suo libro contribuirà a distruggere il mondo così com’è.

Però sono sicura che se un regista bravo e sufficientemente visionario volesse, snaturandolo, trarne ispirazione, potrebbe fare un qualcosa di nettamente superiore al libro.
Un regista come Darren Aronofsky.








sabato 28 settembre 2013

Ogni mattina a Jenin - Susan Abulhawa

Questo non è un libro per intellettuali. 
Nessun tipo di ambizione letteraria vi è in questo romanzo, né per quanto riguarda lo stile e il linguaggio, né per quanto riguarda i temi e i contenuti. 
Che Letterarietà può avere un libro che parla di una prepotenza rimossa dal mondo occidentale, di madri e padri che piangono i figli perduti e di solitudini di bambini, di sopraffazioni che nutrono la rabbia, e ancora e ancora, da oltre 4 generazioni? 
(e non è finita, non è ancora finita)

Attraverso le vicende di quattro generazioni della famiglia Muhammad Abulheja, si racconta la storia del popolo palestinese, dal 1941, quando la vita era semplice e serena nel villaggio di ‘Ain Hod, ad est di Haifa, fino al 2002. 
La storia racconta di Al-Nakba, la catastrofe, così come è chiamata l’espulsione dalle terre avvenuta nel 1948; il confluire dei palestinesi negli enormi campi-profughi, a consumare le giornate in attesa di poter tornare a casa, tra gli ulivi. 
Racconta di Al-Naksa, il disastro, la guerra arabo-israeliana del 1967; della guerra del Libano; dell’Intifada. 
Racconta di matrimoni e di nascite e di giochi e di risate e di odori e di ricordi indelebili. 
Racconta di morti e di violenza e di sradicamenti, di rabbia e vendetta e impotenza.

Indigna e fa soffrire, eppure è un libro pieno, stracolmo di amore. 
“Le radici del nostro dolore affondano a tal punto nella perdita che la morte ha finito per vivere con noi, (…) la nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza può far piangere le pietre. E il nostro modo di amare non è diverso, Amal. 
E’ un amore che puoi conoscere solo se hai provato la fame atroce che di notte rode il corpo. Un amore che puoi conoscere solo dopo che la vita ti ha salvato da una pioggia di bombe o dai proiettili che volevano attraversarti il corpo. E’ un amore che si tuffa nudo verso l’infinito. Verso il luogo dove vive Dio.” 
E’ vero, quella araba è una cultura distante: il legame con la terra, con la famiglia allargata, con Dio. 
(una fede che non viene mai meno, anche quando la sordità di dio è conclamata da miliardi di preghiere sciolte tra le bombe e la cenere e la polvere) 
Le vicende raccontate non possono lasciare indifferenti, anche una pietra piangerebbe, pure chi è abituato a “qualunque cosa senti, tienitela dentro”.
(ho pianto)

Dice l’autrice nella nota: 
"Anche se i personaggi di questo libro sono fittizi, la Palestina non lo è, né lo sono gli eventi storici e i dati riportati in questa storia." 
Poco importa se nella finzione narrativa è una sola famiglia a rappresentare l’intera Palestina, rendendo il racconto troppo sbilanciato in senso sentimentale. 
Qualcosa di quel che ha vissuto il personaggio Yussef è successo all'uomo Haamid, qualcos’ altro a Jamaal , a Muhammad e così via. 
In una famiglia un intero popolo.
Il libro è scritto per emozionare, per toccare il cuore, per mordere le intorpidite coscienze occidentali, così distanti, così distratte, così assenti. 
Non vi è neanche acrimonia nei confronti degli usurpatori. 
Un tantino forzatamente, la voglia di riconciliazione che giustifica il personaggio Isma’il/David, si esplicita nel finale che vede convivere, sotto lo stesso tetto, rami dello stesso albero, “un’americana, un israeliano e un palestinese”. 
E nella pagina conclusiva, naturalmente. 
In questa storia non vi sono cattivi. 
Tutte vittime. 
E in un certo senso è così.

Non è un libro per intellettuali: avrebbe avuto  tutti i crismi per sfondare presso il grande pubblico. 
E invece, non è successo. 
Il cacciatore di aquiloni è stato un best sellers (film e annessi e connessi) e Ogni mattina a Jenin non lo è stato. 
Eppure quello, il cacciatore,  è stato pubblicato da Piemme, che certo non ha la capacità pubblicitaria della Feltrinelli. 
Non credo che ci entri tantissimo la trasposizione cinematografica. 
Un pensiero acido e cattivo si insinua, non ci posso fare nulla.
“Nel mondo arabo, la gratitudine è di per se stessa un linguaggio. “Che Dio benedica le mani che mi porgono questo dono”; “La bellezza è nei tuoi occhi che mi vedono graziosa”; “Che il Signore ti doni una lunga vita”, “Che Dio non respinga mai le tue preghiere”; (…) e via dicendo, una serie infinita di ringraziamenti e di benedizioni. Venendo da una cultura simile, ho sempre trovato insufficiente un semplice “grazie”, come se rendesse misera e ingrata la mia risposta.” Pag. 206. 

Che la commozione che trasmette questo libro venga letta e sentita da un miliardo di persone, e faccia da lasciapassare per una nuova consapevolezza della Storia.

giovedì 26 settembre 2013

Noi del Rione Sanità - Antonio Loffredo

Il libro non ha “valore letterario”. 
E’ la testimonianza, un po’ retorica (gli obiettivi formativi prefissati) e un po’ appassionata, di un parroco che è stato chiamato a “gestire” una comunità e un territorio difficili, e che ha trovato nella cultura la chiave di volta del cambiamento. 
E’ la testimonianza di un parroco che se avesse fatto solo un terzo delle cose che scrive di aver fatto, meriterebbe una statua d’oro .
Ne ha fatte più di un terzo (le altre le devo verificare). 

http://www.catacombedinapoli.it/index.asp

Certo, la Sanità non è un agglomerato di celle con niente attorno se non altre celle e strade e munnezza, un piccolo vantaggio Don Antonio pure ce l’ha avuto, però chissà come mai prima nessuno ci aveva pensato alla storia ai monumenti alle tradizioni, alla cultura che è lievito che può dare il pane.

Tanti preti che blaterano solo, e pure a dire messa sopra l’altare ci vanno con la scorta (ma non solo i preti) dovrebbero imparare dal racconto di questa esperienza qual è la differenza tra il dire e il fare. 
Di mezzo non c’è solo il mare, ma la dignità.

sabato 14 settembre 2013

La schiuma dei giorni - Boris Vian

Vian Boris

Per entrare nel mondo di Vian e del suo romanzo occorre destrutturarsi. 
Rimuovere ogni “normale” concezione di spazio e di causa-effetto, per addentrarsi in una prospettiva apparentemente a-logica . 
Vian concepisce un mondo totalmente alieno, incuneato dentro un linguaggio che si muove per suggestioni. Associazioni di idee assolutamente stranianti. 
“un’uniforme e una catena che brillavano come nasi freddi”. 
“ imitando (…) il volo di un cucù di pastafrolla” .

A descriverlo con due parole lo definirei un romanzo floreale. 
Timido spunta, sboccia rigoglioso, impudico, e si ripiega su se stesso, appassendo e rinsecchendosi fino a cadere polverizzato. 
Non vi è assenza di storia, anzi. 
Ciccino suo, costruisce una storia che è vera perché l’ha scritta lui - Vian si dedica il libro “Per me, Ciccino mio” - e perché, al di là dei surrealismi, dice la verità . 
La schiuma dei giorni racconta la parabola di un amore. Anzi, di più d’uno, perché, per Vian , ciò che conta è l’amore in tutte le sue forme, anche in quella ossessiva di Chick il collezionista di cimeli.

L’inizio, le case e il paesaggio si dilatano a dismisura , le finestre accolgono due soli che illuminano le piastrelle e riverberano in gocce solide. L’ansia da innamoramento si materializza nelle cose, nel cibo, nella musica, nel piacere dell’invenzione (oh, il pianocktail, triste destino). 
Nicolas non si accontenta mica, vero cuoco- gourmet. Ma Chick e Alise, Colin e Chloè iniziano la strada di coppia seguendo traiettorie diverse, che terminano entrambe in un baratro doloroso. L’una vinta dalla malattia, evento naturale, fiore che distrugge fiori, la ninfea nel polmone. 
L’altra vinta dalla monomania, inaridita dall’ossessione per un “oggetto”. 
Che sia il collezionismo e il fanatismo verso l’eminenza culturale Jean- Sol Partre , è solo un dettaglio, non trascurabile, ma è un dettaglio. L’anarchismo di Vian non preserva alcun mito. 
E durante questo tempo, il tempo della malattia e della monomania, fiocca la critica alla società. Il formalismo della religione, il lavoro che soffoca e annichilisce l’uomo, la grettezza di medici e bottegai, la cecità del burocratichese e delle forze dell’ordine. 
E l’epilogo. Case che si rimpiccioliscono quasi fino ad implodere, cuori strappati, fiamme e fuoco, fossati che inghiottono anima e lacrime.

Tristissimo e bellissimo. 
Lo avrei apprezzato anche solo per il godimento prodotto dalle invenzioni linguistiche e dallo spirito anarchico, e invece mi è toccato pure emozionarmi.

venerdì 13 settembre 2013

Trilobiti - Breeze D'J Pancake

Trilobiti è la raccolta degli unici 12 racconti di un giovane scrittore americano morto suicida. 
I protagonisti sono minatori, contadini, benzinai, gente che si arrangia come può: è il proletariato  di un’America  non lontana dalle grandi città moderne e vivaci, ma rinchiusa tra le montagne, per molti versi ancora arcaica; i personaggi sembrano bloccati  in una sorta di incapacità di movimento, di mutazione, di evoluzione.
Quasi vivono con rassegnazione il loro destino immutabile: sono inselvatichiti, anzi  selvatici , selvaggi e primordiali nelle azioni – la caccia,  lo sventramento delle prede, la lotta, la violenza verbale nei pochi radi discorsi – o restano incastrati  nel ricordo di qualcuno o di qualcosa, incatenati ad un momento del passato.
Sento che la mia paura si allontana in cerchi concentrici attraverso il tempo, per un milione di anni”. 
Trilobiti viventi. 

Le notizie biografiche su Pancake, i lati ombrosi del suo carattere, il suicidio a 26 anni, sono tali che, inevitabilmente,  attorno all’autore e al suo libro si sia costruito una sorta di culto.
(il culto del rimpianto, il manifesto della disperazione)
A me, la verità, l’opera prima e unica di Pancake  non sembra il capolavoro acclamato da molti. 
Tra tutti, solo alcuni racconti mi sono piaciuti davvero – Una stanza per sempre, L’attaccabrighe, La mia salvezza.

Ho sentito l’odore di troppo acerbo, come sentieri appena tracciati: racconti di legno verde.  

lunedì 9 settembre 2013

Nella gabbia - Henry James

Nella gabbia c’è una telegrafista. 
Chi invia i telegrammi, o compra i francobolli per inviare lettere, è gente dell’alta borghesia e della nobiltà. 
Sono i ricchi, quelli che possono permettersi di comunicare a distanza all’inizio del XX secolo. 
Ed è a loro, con invidia mascherata a parole da disprezzo, che la telegrafista mira. 
Vorrebbe essere una di loro. 
La telegrafista coglie tra le migliaia di parole da contare, anche quelle che nascondono intrighi amorosi, tracce adulterine, galanterie sconvenienti. 
La sua fervida fantasia, o si immagina o si muore, la porta a credersi parte indispensabile e utilissima nella catena degli altrui intrallazzi: lei sa cose, decripta segreti. 
Mentre tiene in mano senza troppo entusiasmo il fidanzamento con il droghiere - che squallore, una vita da trascorrere nella modestia illuminata da una lampada a petrolio – costruisce giganteschi castelli di aria fritta, sperando, senza tuttavia essere troppo sfacciata - il perbenismo vittoriano si insinua nei ranghi della bassa borghesia più che altrove – che si avveri il sogno del balzo sociale, un matrimonio con un capitano, ad esempio. 
Ma i telegrammi rimandano solo straccetti di appuntamenti, il suo credere di sapere si rivela fallace quanto il suo sogno.

Pensavo alla terribilità della gabbia. 
Non come luogo di lavoro, ma come gabbia delle aspirazioni. 
Come avrebbe potuto cambiare la vita della telegrafista, se non attraverso un matrimonio “interessante”? 
Quanto sarebbe stato disdicevole esser zitella, per lei, piuttosto che prendere un marito il droghiere solo perché ne fa richiesta e ha una condizione economica non peggiore della sua, e che delusione e senso di pochezza, allora, rispetto alla propria esistenza. 
I movimenti femministi cominciavano a far sentire la propria voce, già allora. 
Eppure la telegrafista non vede nessuna altra forma di realizzazione personale se non quella legata all’ascesa economica e sociale, così come la sua amica fiorista, che frequenta le case delle nobilsignore più per accalappiare i single che per vantare la propria creatività. 
Che brutti tempi, erano quelli.

Però, a pensarci bene, anche adesso, eh. 
Di telegrafiste è pieno ancora il mondo, purtroppo. 
Sono sicuramente più sfacciate, ma tant’è, il risultato non cambia.

martedì 3 settembre 2013

La casa dei normali - Francesco Manarini

SantaWikipedia dice che “Per distopia (o antiutopia, pseudo-utopia, utopia negativa o cacotopia) s'intende una società indesiderabile sotto tutti i punti di vista. Il termine, da pronunciarsi "distopìa", è stato coniato come opposto di utopia ed è soprattutto utilizzato in riferimento alla rappresentazione di una società fittizia (spesso ambientata in un futuro prossimo) nella quale le tendenze sociali sono portate a estremi apocalittici.”

“La casa dei normali” è un libro iperdistopico. 
Fondato su una struttura esclusivamente dialogica, priva di qualunque pausa descrittiva, mette in scena la vita quotidiana della famiglia Rovato. 
Madre, padre, due figli, abitanti in una zona geograficamente identificabile come Padania centrale, i Rovato sono una famiglia normale. 
Si salutano tra moglie e marito con bacio bacio, i figli litigano per chi debba vedere la tv, a scuola ci sono le solite sbullonate tra ggiovini, la madre risponde al telefono e apre la porta che il resto della famiglia si rompe di alzarsi dal divano. 
Cose normali, insomma.
Solo che un domani normale dominato ancora di più dal mercato e dalla pubblicità, anche i nomi di battesimo si possono cambiare previa domanda e accettazione dello sponsor, sicchè la signora Sara, come già han fatto i suoi figlioli (i gggiovani anche nel futuro sono sempre avanti) fa la richiesta e prende Reebook come nome, anche se la forza dell’abitudine le costerà cara e amara. 
In un domani normale dominato dalla forma piuttosto che dalla sostanza l’informazione è globale, ma su canale unico, le elezioni si svolgono in modo rapido e indolore attraverso gli sms, le ronde hanno mandato di sparare a vista per legittima difesa contro rumeni, slavi, calabresi , marocchini, cingalesi, senegalesi, siciliani, ucraini. 
(urca, sarei salva! Terrona ma non abbastanza) 
Quello che atterra di più, è che la famiglia Rovato e contorni sono perfettamente integrati, e direi felici, se non fosse che anche ai normali manca sempre qualcosa e per loro c’è sempre qualche rogna, come ad esempio una salatissima sanzione per mancata ostensione del crocifisso in cucina.

Un libro che inquieta, insomma, perché i germi del possibile domani sono tutti nel presente, a partire dal linguaggio sincopato e stereotipato, gallo piuttosto che fico, ma assai simile allo slang che si usa su feisbucc tra i tredicenni di adesso. 
(una chicca l’incapacità di Rolex nel riuscire a pronunciare una parola fuori dall’ordinario, intratimpaniche)
Melma suina, mi verrebbe da dire, ma non lo dico per resistenza, io che non sono affatto una inguaribile ottimista ma sotto sotto spero in un futuro migliore dove la ragione possa prevalere sull’ignoranza, la giustizia imporsi sull’illegalità e la sopraffazione, eccetera eccetera, già adesso tengo normalmente i capelli appizzati e lo stomaco perforato, non ho altro da fare che cercarmi un pizzo di montagna , un faro, un atollo, un eremo di clausura – ammesso che ce ne sia ancora qualcuno - dove trascorrere la vecchiaia.