martedì 4 novembre 2014

Nadja - André Breton

"Chi è lei?" E Nadja, senza esitare: " Sono l'anima errante" 

E' la risposta a "Chi sono, io?", l'incipit del libro di Breton. 
"Chi vive? Sei tu, Nadja? E' vero che l'al di là, tutto l'al di là è in questa vita? Non ti sento. Sono io solo? Sono io?
Sono domande che non hanno risposta, perchè non vi è nessun sofisma in grado di soddisfarle, se non nel completo sovvertimento delle regole e delle certezze, così come esplicitato nella perentoria chiusura: 
"La bellezza sarà CONVULSA o non sarà."

Oltre che il racconto di un quasi amore, mi è sembrato in parte un romanzo di formazione. 
Breton era anima inquieta (come tutti gli esponenti delle avanguardie, del resto), alla ricerca di intuizioni, di segni. 
Tutta la prima parte del testo, è il racconto di esperienze che diventano "rivelazioni": il retaggio di Rimbaud, il cinema con il clone che compare tremila volte, l'incontro con Desnos, la piéce teatrale, il guanto azzurro. 
L'incontro con Nadja diventa determinante e spartiacque perchè ella è, donna in carne e ossa, l'espressione reale della sottrazione della ratio nell'agire umano. 
Breton era alla ricerca "dei collegamenti improvvisi, delle coincidenze pietrificanti" - (Nadja afferra la ringhiera e non vuole staccarsene, Nadia vede "cose" nei dipinti, nella maschera africana) - dei lampi che ci metterebbero in grado di vedere, ma di vedere davvero, se non fossero più rapidi degli altri." 

Breton impara a leggere nelle pause tra le parole dei testi, dopo Nadja. 
Coglie in lei la Bellezza.
Nadja era matta? 
Di certo fu internata in manicomio perchè non era "completamente in regola col codice imbecille del buon senso e della morale
(e ciò offre la sponda per la critica verso la psichiatria, i manicomi in senso stretto, i luoghi di contenimento, prigioni incluse, in senso lato)
Ma Breton non era pronto per Nadja, non tanto perchè "l'istinto di conservazione induce a comportarsi bene" quanto perchè 
"per quanto desiderio ne avessi, per quanto anche ne avessi forse l'illusione, credo di non essere stato all'altezza di ciò che lei mi proponeva. Ma che cosa mi proponeva? Non importa. Solo l'amore nel senso in cui io lo intendo – dico il misterioso, l'improbabile, l'unico, lo sconvolgente e indubitabile amore – quale forse può essere solo se è a tutta prova, avrebbe consentito il compiersi del miracolo."

Facendosi largo tra le dichiarazioni espresse da Breton, sull'antiletterarietà e autenticità dell'opera, che è sfida e rottura alle/delle convenzioni stilistiche e borghesi, e contemplando "l'effetto" Nadja, la melusine, la sirena, la speranza, la persona vera, amata di un amore breve e intenso – rivelatorio, trascinante e doloroso – si riesce a coglierne la trasfigurazione in senso simbolico. 
Nadja diventa l'incarnazione del surrealismo, donna di carne e ossa e pensieri che vive, contagiando, di libertà, intuito, bellezza.

Ma cosa può insegnare, comunicare, imprimere adesso un'opera come Nadja, espressione pura e programmatica di uno stile, oltre che artistico, di vita? 
Io non lo so, in generale. 
A me ha dato poco, oltre al sentimento della meraviglia dell'imprevisto e dell'imprevedibile. 
Forse dovrei far risuonare come risuonava in Breton, una frase di Nadja: 
"non appesantire i propri pensieri con il peso delle proprie scarpe."

E' la difficoltà che sento quando mi rapporto alle avanguardie (storiche e non). 
La fusione tra arte e vita. 
(bell'affare, volendo, potendo)

martedì 7 ottobre 2014

Pozzoromolo - Luigi Romolo Carrino

“Sotto le fondamenta della vecchia casa, là dove sei stato concepito, c’è un pozzo che chiamano Pozzoromolo. Nel pozzo c’è un diavolo. Il diavolo custodisce un tesoro immenso . Molti uomini tentano di prendere il tesoro, scendono giù, sul fondo, si perdono nei mille cunicoli. Nessuno è riuscito mai, nessuno mai ha preso il tesoro. Uno solo, uno soltanto è tornato. Il prezzo che ha pagato, il prezzo del ritorno è stato la follia. Sotto le fondamenta della vecchia casa, la casa dove sei stato concepito, c’è un pozzo che purifica ogni malore. Nel pozzo c’è un diavolo con le ali dell’angelo custode. Il diavolo custodisce un ricordo immenso che non vuoi ricordare. Nessuno è riuscito mai, nessuno mai ha preso quel tesoro da custodire. Uno solo, uno soltanto è tornato. Uno soltanto si è calato senza una luce, ad occhi chiusi ha trovato il suo desiderio avverato ma, il prezzo che ha pagato, il prezzo che hai pagato per tornare è stato averlo dimenticato. “

Gioia è in un ospedale psichiatrico giudiziario. 
Gioia è l’uno che si è calato nel Pozzoromolo, è il diavolo che custodisce il tesoro, è il diavolo con le ali dell’angelo custode. 
Gioia è Pozzoromolo.

“Vorrei sapere anch’io perché sono qui, vorrei saperlo da dentro. Vorrei saperlo tutto quanto il motivo, e farmi uccidere da questo motivo, o farmi finalmente sopravvivere a tutto questo chiuso spazioso, a tutto questo buio sbalorditivo che viene anche di giorno. 
Io non so perché sono qui, io non ne sento la ragione.”

Nel tempo allucinato in cui il 56 maggio precede il 29 maggio, in cui il 10 agosto si itera enne volte, nel tempo senza tempo (da quanto, Gioia, sei nell’OPG?) i ricordi si ingarbugliano, si sfilacciano, si sovrappongono, sfumano nei fantasmi che di notte affollano la stanza. 
Scrive Gioia su file che si perdono nel pc o su fogli all’ombra della grande mamma quercia, o parla, e la sua voci è registrata mentre è sul letto di contenzione .
Gioia è stato un bambino solo e trascurato. 
La sua infanzia è stata segnata dalla perdita e dall’abbandono: un fratellino morto - “Luca non sei più il mio fratello ti odio, non ti ricorderò mai più, non l’ho fatto apposta che mica tenevi la piuma dell’uccello grifone tu, non ti ricorderò mai più, giuro mai più, fino a quando non me lo dici che non fa niente, che non è successo niente, che no, non fa niente, è capitato. Me lo dici, vero?” -, una mamma zoccola e distratta e crudele ma tanto amata da voler diventare bella come lei, un padre violento e arrabbiato, uno zio pedofilo. 
E tra l’infanzia e il dopo c’è Mario, il magnaccia seviziatore.
Amori cattivi, cuori strappati. 
Gioia non è gioia. E’ solo dolore. 
“Io sono sempre spavento, sempre paura, sempre io tremo tutto quanto il buio che nascondo sotto le lenzuola.”

C’è un diffuso desiderio di poesia in molti giovani scrittori italiani, come se le parole per comunicare non fossero sufficienti se abusate, chiare, nitide, semplici. 
Come se il mondo non possa essere compreso, analizzato, sentito, descritto, parlato, guardato fuori dalle metafore e dalle “sospensioni”. 
Mi difetta l’animo da poeta. 
Il poetare mi stucca la bocca, lappa la lingua, inzocca tra i denti. 
Però in questo libro non mi ha disturbata: è Gioia che lo pretende, è la sua “confusione” che lo giustifica, sono le ombre che abitano la sua mente che lo impongono. 
Ho paura di leggere  altro di Carrino. 
Di Gioia ce ne deve essere uno soltanto.

lunedì 8 settembre 2014

Cavalli selvaggi - Cormac McCarthy

Film western non ne vedo da tempo. Poi preferivo quelli sugli indiani; i cow boy, rudi e spacconi , mi ispiravano poca simpatia.
“Il sogno western, strappato al cinema e restituito alla letteratura”, sulla copertina.
Ma in” Cavalli selvaggi” l’ambientazione è relativa.
Non perché non delineata, anzi. Ti senti addosso la polvere e la puzza di cavallo, dopo un po’.
Quasi ti mimetizzi tra le rocce e le gole e praterie. E osservi, perché sono pochissime le parole.
Il giovane John Grady, spezzati i legami familiari, compie un viaggio , dal Texas al Messico, alla ricerca di un modus vivendi autentico. A cavallo.
Un percorso di formazione nel quale conosce l’ingiustizia, il dolore fisico, l’arroganza dei potenti, l’amore .
E conosce Blevins, a cui si lega per un’affinità che va oltre la conoscenza delle proprie storie personali, oltre il legame di sangue, e con cui, anche nell’assenza, continuerà la strada.
Tanto, “ il mondo che correva veloce cancellava senza curarsi di nulla: dei giovani o dei vecchi, dei ricchi o dei poveri, dei bianchi o dei neri, delle maschi o delle femmine. Delle loro battaglie, dei loro nomi. Dei vivi e dei morti.

L' ho associato a Kerouac. Un viaggio on the road al rovescio.
Verso un passato, una radice mitica e senza tempo, che riemerge nel respiro del vento, nell’ora delle ombre lunghe che sembrano rievocare le figure e i canti degli indiani .
Verso una dimensione di vita essenziale, naturale. Verso un’armonia.
Come quella che il giovane riesce a instaurare con i cavalli.
Chi sono i cavalli selvaggi? Un cavallo è selvaggio fino a quando un uomo non lo cattura e lo domina. Non tutti gli uomini sono in grado di farlo. C’è bisogno di un feeling particolare, di una predisposizione.
Il giovane John Grady ha questa attitudine. Parla ai cavalli, entra in sintonia.
E nel deserto degli affetti, il cavallo è molto più che una cavalcatura. Qualcosa per cui vale la pena morire, e uccidere.
Ma il Messico non è la “terra promessa” .
Alla fine del viaggio, Grady ha solo la consapevolezza della sua solitudine e del bisogno di continuare a cercare un luogo che probabilmente non troverà mai.
“Questo è ancora un buon posto per viverci. 
Si, lo so. Ma non è il mio. 
(…) 
Qual è il tuo paese? 
Non lo so, rispose John Grady. Non so dov’è. Non so dove sia andato a finire.”


E’ un libro asciutto, e aspro, e alla fine, colmo di disincanto.

Western, ma anche no.
(Sono sicura che McCarthy abbia un problema con le donne)


domenica 31 agosto 2014

Manituana - Wu Ming

Nutro grande ammirazione, stima e rispetto per i Wu Ming. Mi piace l’idea della scrittura collettiva e   dell’anonimato del singolo (si  impedisce alla prepotenza dell’ego di rivendicare il proprio  talento);  plaudo all’iniziativa di rendere fruibili le loro opere, che si possono scaricare  direttamente dal  sito. *
L’idea della cultura fuori dalla commercializzazione, uammamà,  e il rinunciare al successo della propria persona, sono cose  eversive assai, molto più  delle “agitazioni” e degli scherzetti mediatici di Luther Blissett.
(Q, di cui ho scritto qui,  ce l’ho ancora nella mente e nel cuore. )
Dunque la lettura di Manituana è iniziata sotto i migliori auspici: benevola predisposizione, simpatia emotiva e razionale.
Non sono rimasta delusa, ma.
(del ma dico in coda)

Manituana è un romanzo storico (come Q).
Racconta della guerra di indipendenza americana da una prospettiva altra: coloni e inglesi vabbuò, ma gli indiani? Che ruolo avevano gli indiani?
Perché si tende a dimenticare,  io almeno lo faccio, tranne per l’episodio del Boston Tea Party,  che  soggetti (e oggetti) della  guerra di indipendenza americana sono stati anche  loro, gli indiani, che dall’arrivo degli europei  nella parte settentrionale del continente convivevano, bene o male, con i coloni: facevano scambi e commerci, incrociavano le stirpi,  adottavano  sincretismi in cui tenere uniti gli spiriti della natura e il Dio delle chiese . 

Il libro racconta dell’epopea degli Irochesi e in particolare di  Joseph Brant, un Mohawk   realmente esistito,  dal 1775 (il prologo) fino al 1783 (l’epilogo),  di sua sorella Molly, e di tanti altri personaggi, tra cui Philip Lacroix Ronaterihonte, il Grande Diavolo, il personaggio più affascinante del libro, ma anche degli  Highlanders, scozzesi che si trovano al fianco degli indiani a combattere per.
Per cosa? Per Re Giorgio III d'Inghilterra? Per la propria terra? E contro chi? Chi è il nemico?
(Gli Highlanders, guerrieri tra guerrieri, antichi celti sconfitti e costretti all’esilio  tra i guerrieri  sconfitti dal rum e dall’assistenzialismo). 

E’ l’epopea  dei perdenti, incapaci di comprendere la portata dell’odio e della “civilizzazione”.

La parte più mordace del libro è quella in cui si racconta del viaggio in Inghilterra:  Londra è una città fetida e corrotta,  non sono esclusi  né i  titolati, costretti  nella gabbia delle ”etichetta” e  nella menzogna dell’adulazione, né i pezzenti morti di fame.
E poi ci sono i Moloch,  una banda all’arancia meccanica che, travestita da indiani e usando archi e frecce,  dissemina il terrore tra le strade. 
L’assonanza Moloch (il dio distruttivo) e Mohawak,  a cui il capo dei banditi vuole ricondurre una fantomatica discendenza bastarda, è la testa di ponte  del gioco linguistico che punteggia le descrizioni dei bassifondi in cui agisce la banda.  
Occhiosolo Fred locchiava le mignotte da dietro il banco della taverna. Era in un cortile di Tottenham Court Road, in mezzo a quello che chiamavano, con rispetto parlando, «l’isolato dei tagliagole» di Soho. Da vent’anni, pure se priva di insegne, portava il suo nome, Taverna Occhiosolo, cioè da quando Fred era sbarcato per sempre da gusci e legnacci sopra la terraferma, e con i quattro denghi che aveva gagnato tra paghe, ruberie e contrabbandi, s’era comprato quella stamberga per diventare un poldo bigio e ciucco in santa pace, e si fottesse l’acqua salata. L’affare era ganzo, il gagno sicuro, il truciolo in saccoccia allora non faltava, e la ciangotta ce l’aveva giusta per ispirare il rispetto. Il resto l’avevano fatto l’occhio guercio, ché uno buono era abbastanza per locchiare quello che si doveva locchiare, qualche sfregio a mescolare i tratti e l’espressione, la ghigna storta e i quattro zughi rimasti nel truglio, marci e affilati come quelli di un pescecane morto. S’era ritrovato oste. Altri tempi. Poi l’età bigia, loffia, scannata e bastarda aveva irrancidito ossa e budella, costringendo Fred a mettersi sotto padrone, un malcico merdoso e lezzo che conosceva da quando era fringuello e si chiamava James, ora Dread Jack. Teneva una ganga di soma infami, truffa e zavagli. Tutto il giorno a glutare gin e a riempirsi le gaioffe e le palandre di denghi frutto di tagli, infamate e borseggi.





[Fosco Maraini  sentitamente ringrazierà del tributo, penso].
Questo intermezzo rivela che non solo la ricerca storica e il gusto per l’avventura  - in qualche modo Manituana è anche un romanzo di avventura -  interessano ai Wu Ming, ma anche il pariamento e il cazzeggio puro. 

Manituana è un libro corale non solo perché è scritto a più mani, ma  anche per le voci dei personaggi, nessuno escluso: c’è posto per i sogni premonitori del Sachem Tekarihoga  e di Molly, per le preoccupazioni di generali e capitani lealisti e ribelli, persino per il più bastardo e schifoso personaggio del libro, Klug: 
I selvaggi erano in America da prima di tutti, che scoperta.
Anche gli scoiattoli, allora, eppure nessuno chiedeva il loro permesso, prima di abbattere un bosco e coltivarci segale. Klug ne era sempre più convinto: bisognava liberarsi dai musi rossi una volta per tutte. Presto o tardi, un generale gentiluomo con la passione per le squaw si sarebbe convinto che anche gli
indiani avevano diritto alla felicità. Anche i negri. Anche gli scoiattoli e i boschi. Se si andava avanti così, gli Stati Uniti d’America avrebbero avuto un orso per ambasciatore, un negro per ministro e Sorella Zucca seduta in Congresso.”

Però nessuno è interamente cattivo o buono (tranne Klug, che è abominevole come lo sono tutti i razzisti).
La fallacia e la miopia  che guidano le azioni dei singoli e dei gruppi, anche quelle più “ragionate”, sembrano essere la cifra comune del romanzo. 
E’ per questo che Manituana, pur essendomi piaciuto abbastanza, non scalzerà Q dalla mia personale “graduatoria” di gradimento. 
Quello era un libro “contro”, qui c’è un po’ troppo grigio.

Però ha avuto il merito “collaterale” di spingermi ad indagare sulle mille e mille nazioni indiane, più delle isole sul fiume San Lorenzo, la terra di Manituana, dove si ritirano a vivere i superstiti della guerra di indipendenza americana.  
Il Padrone della Vita srotolò la coperta e dentro c’era unaterra di delizie, creata perché tutti vivessero nell’abbondanza e non ci fosse più motivo di combattere. Appoggiò il regalo sulle acque del San Lorenzo, a distanza uguale dalle due sponde, e invitò gli uomini a trasferirsi lì. Per lunghi anni, il popolo del Sud e il popolo del Nord vissero in pace su Manituana. Per parlarsi, mescolarono le loro lingue, così che nessuna incomprensione potesse sorgere. Nacquero i primi figli e molti di essi avevano il padre di un popolo e la madre dell’altro. Ciascuna famiglia voleva che i discendenti imparassero anzitutto la lingua e le abitudini degli avi. Così, mentre i figli crescevano e parlavano la lingua bastarda che non era madre per nessuno, la gente del Nord e la gente del Sud ripresero a odiare. Quelli del Sud tornarono al Sud e quelli del Nord al Nord. Soltanto i figli che non erano di nessun popolo restarono su Manituana, mentre i loro parenti si preparavano a combattere, per decidere chi tra loro avrebbe tenuto l’isola. Le grida e i canti di guerra salirono in alto e spinsero il Padrone della Vita a scendere una seconda volta. Arrivato sulla terra, capì che gli uomini combattevano di nuovo per colpa del suo regalo. Allora raccolse la coperta e la portò via. Ma mentre scostava la tenda del cielo, la coperta si aprì e la terra precipitò nel fiume.

Isolati, franti, rotti: questo il destino degli Irochesi delle  Sei nazioni, il popolo della Lunga casa: la loro storia è il prologo della storia di tutti i nativi: Manituana precipitata nel fiume è  l’anticipo delle riserve in cui tutti gli indiani dell’America  Settentrionale furono poi spinti dagli “americani".


* il sito dei Wu Ming
http://www.wumingfoundation.com/index.htm

giovedì 22 maggio 2014

Ghiaccio-nove - Kurt Vonnegut

"Signore, come muore un uomo quando viene privato della consolazione della letturatura? 
"in uno o due modi, "disse lui, "per pietrificazione del cuore o per atrofia del sistema nervoso."

Ghiaccio-nove non emoziona, almeno rispetto a Mattatoio n. 5
E' molto più cerebrale, ma meno potente e incisivo di Madre notte. 
Un Vonnegut in tono minore. 
Tuttavia , anche in questo romanzo fanta-scientifico (e la scissione del temine è volontaria) ritorna uno dei suoi leit-motiv: l' etica della menzogna come guida alla sopravvivenza.
Il ghiaccio-nove è una scoperta scientifica dalla forza distruttiva infinitamente più potente della bomba atomica, la cui incauta gestione porterà all'apocalisse. Sopravviverà un manipolo di individui sghembi e strani, e il narratore, uno scrittore che partendo dall'intenzione di scrivere un libro sul giorno dello sganciamento della bomba atomica visto con gli occhi di chi l'ha costruita, arriva nell'isola di San Lorenzo, culla del bokononismo e della sua negazione. 
Ma quello che resta, dopo la lettura, oltre all'accusa di stupidità dell'agire umano, incapace di prevedere conseguenze, direzioni, sensi, oltre l'ombra del proprio naso, è proprio l'invenzione del bokononismo, una religione nata in modo casuale da un santone improvvisato, della quale si declinano ritualità (eh, il boko-maru) e principi. 

Il caposaldo della setta è nella prima affermazione dei Libri di Bokonon: 
"tutte le verità che sto per dirvi sono spudorate menzogne". 
Ma solo seguendo la "foma", la menzogna, si può arrivare alla felicità e alla serenità. 
(e pure nelle altre religioni. La religione può essere utile)
Il bokononismo deresponsabilizza. 
Pensare di rientrare in un progetto imprescrutabile e incomprensibile (dov'è la verità, se l'assunto di partenza è la menzogna?), deresponsabilizza. 
L'assenza di responsabilità individuale va di moda. E' sempre colpa degli altri. Tanto, poi ci si accomoda nella "foma". 
Ma qualcuno, colto da improvvisa illuminazione, non potrà non cogliere il paradosso del pensiero bokononista: 
"la straziante necessità e al tempo stesso la straziante impossibilità di mentire sulla realtà". 
E allora resta solo la sensazione di impotenza e di sconfitta. 
Bokonon lo sapeva già.

venerdì 9 maggio 2014

Primavera di bellezza - Beppe Fenoglio

La componente autobiografica è fortemente presente in questo romanzo: Fenoglio  era studente universitario quando fu richiamato alle armi e spedito al corso di addestramento per allievi ufficiali nel 1943, prima in Piemonte (Ceva, che diventa Moana, nel libro) e poi a Roma, come Johnny,  il protagonista:
 “Al momento della chiamata alle armi si trovava a metà degli studi per diventare professore di lingua e letteratura inglese
Sono sicura che anche il “sentire” di Johnny sia  lo stesso che aveva provato talora  Fenoglio:
Beppe Fenoglio, primavera di bellezza
 “Nel filone della brezza che faceva vorticare le foglie dei pioppi come tante elichette, accennò ad aprirsi la giubba: si opposero le giberne, ma l'impedimento non valse a ricordargli ciò che le giberne rappresentavano. Dietro, gli spari echeggiavano sempre più fiochi, voci umane non gli arrivarono più. Scavalcato un arginello, gli appari l'acqua; stagnava, profonda e muta, quasi solida nella sua immobilità e nel modo con cui combaciava con l'altra riva, un arenile ammiccante sotto il sole. Da una macchia al limite della sabbia un misterioso uccello mandò il suo verso spaventato e cattivo, ultimo. Nel silenzio che seguì, Johnny si concentrò tutto nell'acqua: era sorella dell'acqua del fiume che lo aveva allevato, quella dei suoi solitari bagni mattutini, dove e quando la millimetrata immersione gli procurava una pungente lunga voluttà quale nessuna donna ancora aveva saputo regalargli.
Stremato da quell'eccesso di libertà e di oblio, dovette appoggiarsi al tronco di un pioppo; sentì la scorza tenera e tiepida, non udì la tromba lontana suonare il cessate il fuoco. Questa del fiume era la realtà, il sogno morboso era l'esercito italiano, la guerra che esso stava disastrosamente perdendo, il corso di addestramento che si teneva a Moana; gli fosse comparso dinanzi Jacoboni, o lo stesso Di Leva, avrebbe appena battuto una palpebra, persuaso di annullarlo con quel minimo moto.

Come Fenoglio,  il protagonista del romanzo è a Roma   l’ 8 settembre, il giorno dell’armistizio:  assiste allo sfascio dell’esercito, cerca di tornare a casa  vestendo abiti civili e sfuggendo lo sguardo e il mitra dei tedeschi (gran bell’impresa trovarne, di abiti civili, e risalire la penisola su treni stipati come carri bestiame)  , ma prima di arrivare a casa si imbatte nei “ribelli” e si aggrega loro, scoprendo  nella guerra contro il nemico tedesco  un  “valore”,  il senso da dare alla  propria esistenza.
Lui, Johnny, che dell’esercito e della divisa se ne infischiava una cippa, che era per natura un solitario e un  riflessivo, che avrebbe voluto tornare a “baita”, incita all’azione il piccolo gruppo di partigiani scampati all’incursione nazista che ha bruciato il paesino che accoglieva la base.

Allora Johnny disse: « Un modo ci sarebbe, di ringraziare Geo e tornarcene a casa senza sentirci troppo inferiori a uno sputo. Aspettarli al ritorno e fargliela pagare in parte. »
Modica assentì immediatamente e senza eccitazione, Cattadori e Coromer non batterono ciglio, ma Sciolla si turbò più del necessario. « Un'imboscata? Un'imboscata di noi cinque a centinaia di tedeschi? Ragazzi, vi par poco? Non dico che non la si possa fare... »

Johnny sorride alla morte che lo attende.
E’ un uomo, non uno sputo.

Eh, la Resistenza.

domenica 4 maggio 2014

Cristo tra i muratori - Pietro Di Donato

Cristo tra i muratori
Di Donato era figlio di immigrati abruzzesi, e parte della sua esperienza personale è trasposta nel libro “Cristo tra i muratori”: suo padre morì nel cantiere, e lo stesso scrittore divenne muratore, così come Paolino, il ragazzino protagonista del romanzo. 
Paolino a 12 anni deve sostituirsi a suo padre, con le difficoltà connesse alla giovane età ( i muscoli, eh, i muscoli e le braccia hanno da essere forti per costruire muri) e inizia a lavorare, in un ambiente straniero e ostile, per sostenere la famiglia. 
(La famigghia, di quelle senza ombre e senza macchie: quercia e catena)
E’ un libro del 1937, pubblicato in Italia nel 1959. 
Uno spaccato della condizione degli immigrati, costretti prima alla fatica di trovare il lavoro e poi a quella di mantenerlo, fino a che morte non li separi. 
E’ il racconto di fame, fatica, angoscia, solidarietà e affetti, di feste rare e smargiasse; il racconto di una vita ridotta alla pura e semplice speranza, una speranza che è al di là dell’oggi, che s’affida alle parole delle fattucchiere e delle preghiere.

La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l'oppio dei popoli. » 
E’ stato il mio pensiero ricorrente.]

Pietro Di Donato conosceva il job. 
Onde d’ambra incandescente galleggiavano sul cantiere, l’acciaio sudava minio, il palco sapeva di cenere di pineta, il mattone si fendeva in lamette rosse di argilla bruciata, nel secchio di cemento la sabbia vergine e la calce viva disegnavano brulicami grigi, e gli uomini odoravano di carni abbrustolite.” 

Il cantiere è vivo e assicura la vita, la sopravvivenza. 
E’ un mostro che si addomestica. 
Il rischio però che ingoi e maciulli è sempre presente. 
Ma la colpa, di chi è la colpa? 

Quella notte passò nell’incertezza, nella sensazione che, per qualche oscuro motivo, la famiglia di Geremia fosse dalla parte del torto, e che dalla parte del torto fossero le umili facce spaurite nei corridoi dell’Istituto Liquidazione Infortuni, e tutti coloro che vivevano alla giornata negli appartamenti sopra il loro, tutti gli uomini che sudano bestemmiano e muoiono sul lavoro; volgari e immorali tutti, di peso alla carità pubblica, impotenti di fronte al trionfante potere della legge. 
E Paolino stringeva disperatamente il cuscino. 
O Dio che sei nei Cieli, in che mondo e in che paese siamo? Abbiamo mai pensato di far male? Qual è la nostra colpa? 
Verso l’alba, Nunziatina si addormentò sulla stessa domanda: qual è la nostra colpa? 
Nati nel peccato, rispondevano i muri e il buio e l’aria e la paura.

Allora come ora, purtroppo, ancora accade.

domenica 16 marzo 2014

Hazard e Fissile - Raymond Queneau

Raymond Queneau Hazard e Fissile
Bella la copertina, la Q con polpessa e granchietti. 
In libreria ho leggiucchiato l’aletta interna: primo esperimento narrativo (di Raimondino !!), inedito (uààà!), esilarante parodia e una distorsione delle peripezie classiche del romanzo d’appendice. 
Come resistere? Lo prendo. 
(Dieci euro, grazie)
Mancano solo i pirati, perché poi dentro ci sta tutto: il circo, gli inseguimenti, il pagliaccio, l’investigatore, i delitti, l'orangotango, i travestimenti, le piovre assassine, le agnizioni, il killer negro kon accento alsaziano, il tappeto con il cadafero arravugliato, la fanciulla rapita, le seghe, il cimitero, il nano di cristallo, il mostro verde, minchia, ma come, nella grotta entrano Adrien e Lazzaro Hazard e poi Adrien diventa, dopo dieci righe, Sulpizio Fissile?? Vabbuò, ià. 
(e che minestrone)
Se dovessero pubblicare la raccolta dei bigliettini d’ammore che R. Q. passava sotto il banco alla riccioli d’oro seduta davanti, in prima elementare (ah, ritrovarli - che fortuna! - si potrebbero cogliere nelle sgrammaticature gli anticipi delle future manipolazioni del linguaggio!), non mi farò fregare, non me la compro.
(Non lo so perché vengo sempre più spesso colta da attacchi di bulimia conoscitivo-letteraria. Dovessi fare una tesi, uno studio critico, un’esegesi dell’opera omnia di Queneau , sarei pure giustificata. 
Ma. 
Non lo devo - né voglio - fare. 
Mannaggia.)

mercoledì 5 marzo 2014

Lascia stare i santi - Guido Barbujani

C’è un luogo di confine, un interregno, dove le settorialità, le superspecializzazioni,  non hanno posto. 
E’ il luogo dove alberga la  curiosità intellettuale. 
E allora succede che il resoconto di un’esperienza di  ricerca scientifica rigorosa sposti il suo asse su molti altri piani.
Così è Lascia stare i santi
Io sono quello che ha rotto il dente a San Luca
E’ Guido Barbujani, genetista, professore universitario, a compiere il gesto. 
Lo fa però  su incarico del Vescovo di Padova, che  affida ad una equipe di scienziati, storici, botanici, paleografi, numismatici, antropologi (e pure esperti di serpenti),  il compito di verificare che le reliquie conservate nell’arca in  santa Giustina appartengano davvero a San Luca Evangelista. 
Eh, perché mica è facile, dei corpi di santi e martiri si faceva moltiplicazione e divisione, commercio e ruberie: falangi, tibie, rotule e  corpi senza testa o teste senza corpo sono sparse nei quattro cantoni del mondo cristiano e anche dello stesso San Luca (o suoi pezzetti) varie conventicole   ne vantano il possesso. 
Eccerto. 
Le reliquie fanno i miracoli. (come non pensare a stimmate, acque di sorgenti francesi, a Montalcina che è diventata megalopoli del bussssiness religioso, ancora adesso, ancora adesso?)

Il resoconto, in prima persona,  comincia in media res. 
In Siria. 
C’è un passaggio di denaro, dentro un ascensore, tra un colonnello e l’autore. 
E’ per avere campioni di sangue da cui estrarre il DNA per confrontarlo con quello estratto da una radice e da un  dente di san Luca. 
Un’avventura, quella siriana. 
Più facile far passare un carico di kalashnikov che dei campioncini  di materiale ematico. 
(no aids, no aids)
Su come vada a finire il lavoro scientifico, su quali siano i risultati della ricerca, su che canali e con quali scambi e intrecci interdisciplinari si arrivi ad una conclusione, non dico nulla: nel bene o nel male una ricerca scientifica ha pur sempre un approdo, anche se basato su probabilità piuttosto che su dati incontrovertibili.

Non è solo il resoconto di un lavoro scientifico, questo di Barbujani.  
Il viaggio in Siria (come sarà la madeleine del capitolo  “Come diventare distruttori di reliquie” in cui l’autore ricorda il periodo in cui ha lavorato in America, ed ha imparato il “mestiere”) è trapuntato di ricordi di persone, di spazi, di cavalieri e di stiliti, di eccellenze e solitudini, di ritmi e di modus vivendi diversi. 
C’era qualcosa di commovente nella coesistenza di due mondi cosí diversi, nei continui scarti fra antico e moderno, nel loro squilibrio non privo di bellezza, che rimandava ad altre difficili, e pure possibili, coesistenze. Era come se all’arrivo del buio la città moderna si curvasse a coprire le spalle dei propri patriarchi, e con quel gesto testimoniasse come non sempre il trascorrere del tempo sia spietato.” 
Coesistenze.  
E’ un libro strano. 
Sfugge a definizioni, non è un saggio né un libro storico  né un libro autobiografico né  e né. 
Eppure è anche  tutto questo: pagine di  storia, di genetica, di letteratura, note di arte, di chimica, di botanica, si intrecciano con un tessuto più intimo e personale e non privo di ironia destinato  a tessere una sorte di ponte tra il qui  e l’altrove,  tra l’adesso e il passato.
[Coesistenze]
Non vi è solo piacere dell’erudizione. 
E’ il martellante  bisogno di afferrare delle tracce, di trovare un  senso all’effimero che si perde  nel tempo, di cercare corrispondenze, anche se, alla fine, se ne ricava più una sorta di disincanto che altro. 
..col viaggio, l’ansia di comprendere tutto, connaturata a ogni sforzo intellettuale degno di questo nome, lascia spazio a un atteggiamento diverso, purtroppo transitorio ma consolante, che potremmo definire come una piú esatta, e molto rasserenante, percezione della nostra personale scarsa importanza.
O della relativa nostra personale importanza, come mi piace più pensare. 

E’ qualcosa che  travalica  la spinta che viene  dalla scommessa di lanciarsi in una sorta di mission impossible dal punto di vista  professionale e arriva a sottolineare quello spazio di cui parlavo in principio: la curiosità intellettuale, che se da un lato è propria del ricercatore dall’altro è propria dell’uomo. 
(Non solo dell’uomo Barbujani.  Dell’uomo verso l’altro uomo, verso vite incrociate per un’ora, un giorno, per mesi, per anni e poi andate)

"Il deserto si era annunciato con milioni di bandierine.
In Siria i sacchetti della spesa li fanno di una plastica sottile, quasi trasparente, nera. La gente li butta per terra dove capita, con naturalezza, dappertutto. Il vento li porta via, lungo i marciapiedi prima, poi per strade e campi, e sui terreni incolti fuori dalle città, talvolta alzandoli in mulinelli che mi pento di non aver fotografato.
Sbattendoli di qua e di là li lacera, li riduce in striscioline.
Moltissime si arenano contro un muro o nei fossi; molte continuano a viaggiare; coprono grandi distanze fino a raggiungere il margine del deserto, la zona in cui, prima che la vegetazione finisca del tutto, per chilometri e chilometri ci sono solo sterpi secchi. Lí ogni stecco, ogni bastoncino, trattiene il suo frammento di plastica, e la plastica sventola. Cosí la macchina si infila in un paesaggio da fantascienza: la striscia d’asfalto davanti e ai lati, sull’ocra della superficie sassosa, bandierine nere a perdita d’occhio, un esercito che ha occupato territori sterminati e adesso, lancia in resta, aspetta non si sa cosa."


venerdì 24 gennaio 2014

Prenditi cura di me - Francesco Recami

Sinonimi dell’espressione “prendersi cura di”:
amministrare, governare, mantenere, custodire || Altri termini correlati: dirigere, guidare, occuparsi di, reggere, sovrintendere, stare al timone di, tenere in mano, accudire, aver cura di, avere le redini di, badare a, curare, essere responsabile di, provvedere a, sovrintendere a, tenere in pugno, tirare i fili di, far crescere, tirar su. (cit.)

Nei sinonimi dell’espressione, i protagonisti del libro si  prendono cura di qualcuno:  la Marta di suo figlio Stefano, quarantenne con poca arte e anche poca parte;  Stefano  di sua madre colta da ictus;  la badante filippina  della signora Marta.
Pensavo che il prendersi cura avesse un risvolto affettivo più marcato, pensavo che  sottintendesse un moto di premure,  di tenerezza, di affetti.
Mi sbagliavo.

La vita dei protagonisti del romanzo  (solo la loro?) è così :
Erano giorni novembrini e umidi, cadeva una pioggia fine che lucidava il manto asfaltato, se si può chiamare manto una superficie irregolare, piena di toppe a rilievo che tappano le buche, un continuo rammendo, e il rammendo del rammendo, o le toppe delle toppe, esteso a principio.

mercoledì 8 gennaio 2014

L'eroe discreto - Mario Vargas LLosa

Se Varguito avesse scritto solo romanzi come Le avventure di una ragazza cattiva o L’eroe discreto prima del Nobel, col cavolo che glielo avrebbero dato, o quanto meno  avrebbero dovuto modificare di sana pianta le motivazioni, che "la sua cartografia delle strutture del potere e la sua tagliente immagine della rivolta, della resistenza e della sconfitta dell'individuo" ("La guerra della fine del mondo" da solo vale tutta la motivazione), ci appizzano come cavoli a merenda, in libri di siffatta stoffa. 
Una buona stoffa, naturalmente, perché Llosa è un narratore accattivante, e L’eroe discreto, due romanzi in uno, due storie che si alternano in modo indipendente e poi voilà, secondo i più puri canoni del romanzesco si intersecano nel finale, è un libro tutto sommato godibile. 
E’ la questione delle strutture del potere ad essere totalmente assente. 
Sempre di sconfitte e di rivolte si narra, ma queste sono confinate nella dimensione intima, privata, sul piano che definirei “sicumera degli affetti”.
Dunque il vero nodo del romanzo è nelle dinamiche familiari o meglio ancora generazionali e affettive (o anaffettive, che si può scegliere una vita a patella accanto ad un uomo per “espiare” le colpe, anche), ma il modo in cui vengono “risolte” o “esplicitate” resta confinato in una dimensione patinata , e fatti i debiti distinguo in ordine alla qualità, oserei dire da telenovelas, con le iterazioni e ripetizioni tipiche della sceneggiatura del genere (mi ami pablo?dimmi che mi ami pablo. Mi hai detto che mi ami pablo? Allora mi ami pablo).

L’eroe discreto è Felicito, proprietario di una ditta di trasporti, un uomo comune, insignificante anche nell’aspetto, minutino minutino, che fa ferro e fuoco pur di non pagare il pizzo che gli viene richiesto attraverso delle lettere firmate con un ragnetto. 
La mafia? Un’entità mostruosa e sfuggevole, che si infiltra in tutti gli strati della società corrodendola, piagandola, o qualcosa di molto meno distante, che distrugge le sicurezze di una vita intera (o dà forza ai moti oscuri del cuore), e che per questo ferisce ancora di più?
Felicito viene definito nel romanzo un uomo “etico”. 
Non so quanto possa essere “etico” o “eroico”, seppure discreto, un uomo come Felicito. 
A me è sembrato ottuso e meschino - vivere anni e anni con il dubbio che, senza mai parola proferire, tollerare una “buona moglie” che spende e consuma poco e che è poco più di un’ombra – ma alla fine, nonostante il moto di rivolta, Felicito resta quello che è sempre stato, anche se una "brava persona", un uomo piccolo piccolo, soprattutto nel considerare le ragioni del “sangue del proprio sangue” prevalenti su qualunque altra considerazione.

Nell’altra storia, il protagonista è Rigoberto ( quello de "L’elogio della matrigna" e dei quaderni), osservatore e testimone di un’ulteriore vicenda che determinerà lo snodo in cui convergeranno le narrazioni alternate. 
Mi ha fatto impressione ritrovare Rigoberto, la sua consorte Lucrecia e giovincello Fonchito , rappresentati come la famigliola mulino bianco, turbata stavolta non da pruriginosità ma dall’inquietante figura di Edilberto Torres. 
Tuttavia ogni tanto guizzano nel testo frasi che riportano alla memoria tutt’altre storie: 
"- Ecco che spunta fuori il prete, Pepìn, - si indignò Rigoberto. – Vuoi dire che mio figlio potrebbe essere un angelo? 
- Un angelo senza ali, però, - rideva Lucrecia, con autentica allegria e gli occhi accesi di malizia."

Non sono soli don Rigoberto & family a fare revival , anche Lituma, il Lituma degli invincibili e de "La Casa Verde", ha una parte nel romanzo. 
Mi sono chiesta il motivo di questi ritorni, ma la risposta che mi sono data di sicuro non piacerebbe a Vargas LLosa. 
Vabbuò, vedremo nel sequel, che le premesse per ulteriori sviluppi ci sono tutte.

giovedì 2 gennaio 2014

Meridiano di sangue - Cormac McCarthy

Le storie western sono  le storie della frontiera. 
I pionieri della frontiera portavano la “civiltà” nelle terre dell’ovest.
Ma non c’è nessuna “civiltà” in Meridiano di sangue, solo la danza macabra della morte. 
Villaggi e paesi in rovine, carri bruciati, cadaveri di pionieri e di indiani e di messicani e di soldati e di pellegrini massacrati, sangue  fresco, raggrumito, colante, sangue che tinge i ruscelli e intride le pietre, sangue e sputi. 
Uomini in cerca di altri uomini, di scalpi e di ossa;  uomini in cerca di oro, di un passaggio per un mondo diverso;  la frontiera è una terra dove i lampi rendono elettrica l’aria, il sole brucianti le rocce, dove  l’acqua si nasconde  in pozze profonde o sgorga da  ruscelli tra gole tortuose e ripide. 

Il ragazzo la cui madre è morta nel darlo alla vita,  che non sa leggere né scrivere, nonostante suo padre fosse un tempo un maestro, comincia il viaggio. 
Dal Tennessee, che lascia a 14 anni, fino alla California, e indietro, nel cuore duro dell’America del confine, il Texas, e diventa uomo.
Un viaggio che durerà  30 anni, dal 1858 al 1878.
E’ all’inizio del suo viaggio che incontra per la prima volta il giudice. 
Grosso, calvo, glabro, roseo come un enorme bambino, il giudice è una figura inquietantissima. 
Parla come un profeta,  scrive appunti sul taccuino e conosce le rocce, le stelle, la fauna e la flora, forse le sacre scritture.  
E’ un personaggio dalla valenza simbolica, come lo sarà Chigurh in Non è un paese per vecchi
(come lo è Kurtz in Cuore di tenebra di Conrad)
E’ un uomo al di là di ogni morale, anzi, più propriamente  è l’incarnazione  dell’etica della guerra, dell’etica  della sopraffazione come forma di conoscenza e unica forma di reale esistenza nel mondo, mentre il resto è finzione, falsità, vuota e mera apparenza.
E’ il male cieco, assoluto, privo di motivazioni e di cause, l’essenza stessa della natura umana, quella che viene “mascherata” dal carnevale della civiltà. 
Dice il giudice: 
L’uomo che crede che i segreti del mondo resteranno nascosti per sempre vive nel mistero e nella paura. La superstizione lo trascinerà in basso. La pioggia eroderà gli atti della sua vita. Ma l’uomo che si assume il compito di individuare nell’arazzo il filo che tutto ordisce, in virtù di questa sola decisione si fa carico del mondo, ed è soltanto facendosene carico che egli può trovare il modo di dettare i termini del proprio destino. 
Non vedo cosa c’entri questo col fatto di catturare uccelli. 
La libertà degli uccelli è un insulto per me. Li metterei tutti negli zoo. 
Bell’inferno di zoo, sarebbe. 
Il giudice sorrise. Sì, disse. Proprio così.”

Il giudice e il ragazzo che diventerà  uomo  sopravvivendo alle risse, agli attacchi degli indiani, alla galera, alle ferite, sono i personaggi principali del romanzo. 
Ascoltami, amico, disse. Sul palcoscenico c'è posto per un animale, uno solo. Tutti gli altri sono destinati a una notte eterna e senza nome. Uno dopo l'altro si immergeranno nel buio davanti alle luci del palco. Orsi che danzano, orsi che non danzano.”

Un animale solo. 
La frontiera di McCarthy è questa: sopravvivere al male, o sprofondarvici fino al midollo.
Una visione cupissima dell’umanità, una visione che non offre consolazione, né risposte.
O forse  solo un piccolissimo barlume di speranza:  tra quelli che vagano in cerca di qualcosa e quelli che vagano ma non  cercano, qualcuno può fermarsi,  e può  accendere luci, far scintillare le pietre. 
E’ quello che  farà  il padre di Bell lo sceriffo in Non è un paese per vecchi,  scegliendo di allontanarsi dalla società e di non fare lo sceriffo, portando  la torcia e la luce, nel sogno.
E’  quello che farà il padre nel romanzo La strada, il padre portatore del fuoco: prendersi cura del figlio fino alle stremo delle forze.

Penso che McCarthy abbia un grandissimo debito nei confronti di Conrad. 
Kurtz di Cuore di tenebra è l'archetipo del giudice Holden. 
Anzi, tutto Meridiano di sangue mi ha ricordato Cuore di tenebra: il viaggio dentro l’orrore, la  forza potente e anche immaginifica della natura:
Rimase seduto a guardare il sole immergersi sibilando fra le onde. Il cavallo si stagliava scuro contro il cielo. I frangenti echeggiavano nel buio e la nera pelle del mare si gonfiava sotto il mosaico delle stelle e le lunghe onde pallide emergevano dalla notte e si rompevano lungo la spiaggia.
Si alzò e si voltò verso le luci della città. Le pozze lasciate dalla marea luccicavano come crogioli fra le rocce scure su cui si arrampicavano a ritroso i granchi fosforescenti. Incamminandosi nell'erba salata, si voltò a guardare. Il cavallo non si era mosso. La luce di una nave brillava a intermittenza fra i marosi. Il puledro stava appoggiato al cavallo con la testa abbassata, e il cavallo fissava luoghi inconoscibili all'uomo, là dove annegano le stelle e le balene traghettano le loro anime immense nel mare nero e sconfinato.”

Ma mentre in  Conrad  sussiste l’idea che la civiltà, pur essendo latrice di ingiustizia e sopraffazione possa in qualche modo proteggere l’uomo da se stesso,  per McCarthy  è nel gruppo che l’uomo rivela ancora di più la sua natura orribile: al ballo ne resterà uno solo. 
Dice il giudice:
Ti ho riconosciuto la prima volta che ti ho visto, eppure tu sei stato una delusione per me. Allora come adesso. Ma anche così, alla fine, ti ritrovo qui con me.
Il ragazzo diventato uomo non ha  imparato ad accendere i fuochi dalla pietra, e il giudice  “...  non morirà mai. Danza nella luce e nell'ombra, ed è il beniamino di tutti. Non dorme mai, il giudice. Danza, danza ancora. Dice che non morirà mai.

McCarthy è davvero il cantore del Buio.