mercoledì 17 luglio 2013

A che punto è la notte? - Fruttero & Lucentini

A che punto è la notte? 
La notte è fonda e senza luna. 
E’ una condizione immutata e immutabile, dato il brancolare degli uomini tra l’apparenza e la sostanza. 
Guardare non significava vedere, vedere non significava capire.” 

Questo è il nodo fondamentale del giallo di Fruttero e Lucentini: un classico nel genere, in quanto gli elementi narratologici tipici ci sono tutti, dal delitto (anzi due, anzi tre, anzi di più), all’investigatore (anzi più di uno, ma Santamaria impera), agli indizi e falsi indizi.
Ma F&L vanno oltre: mescolano cielo e terra, ambizioni e ritrosie, solitudini e condivisioni, buoni e cattivi, mafiosi e poliziotti, vamp svampite e commissari etici, galoppini e animelle perdute, stenografe dei pensieri e studiosi di barbe posticce. 
Eh, sì, un mondo di pazzi, ormai, una notte insensata e torbida come questa fanghiglia che inzaccherava capricciosamente i rossi, i verdi, gli azzurri, i gialli orgogliosamente partoriti dal Colosseo, da tutti i Colossei del mondo, e ridimensionati da un po' di neve e di pioggia alla loro primigenia condizione di ferraglia dipinta, ferraglia Citroen, ferraglia Fiat, ferraglia Volkswagen, ferraglia Ford, ferraglia Porsche, ferraglia Toyota, ferraglia piena di spinterogeni e scatole del cambio e carburatori e pistoni e cinghie, tubi, tubetti, tubicini... Un insensato, un assurdo ammasso: dove però un bravo meccanico sapeva mettere le mani, avvitare, congiungere, rimontare, collegare.” 
La ferraglia è veramente ferraglia, tolta la cromatura. 
I re sono nudi, altro che voli pindarici e gnosi buone solo alle fanfole.

Un bel libro, nonostante la mole, nonostante la caratterizzazione un po’ sopra le righe dei personaggi (dall’ateo commissario Santamaria – che cognome evocativo, cazzarola! - che s’intrippa in un unidirezionale dialogo mistico, al Don Pezza , arlecchino a servizio dell’ambizione e della follia), nonostante l’inverosimiglianza della faccenda. 
[che poi, la realtà. Chi avrebbe mai creduto se non l’avesse visto coi propri occhi che un primo ministro potesse far passare una escortina per la nipote del Presidente di un altro Stato?]

Un bel libro soprattutto per la non troppo sottile pietà verso l’umana incapacità di andare a parare da qualche parte, per il misterioso dolore che l’attraversa alla ricerca di qualcosa che dia senso, che sia senso, che sia luce.

lunedì 15 luglio 2013

La terra del sacerdote - Paolo Piccirillo

Piccirillo è un visionario. 
La terra del sacerdote
Nel primo romanzo, Zoo col semaforo, si  intervallano  e si intersecavano storie di uomini e di animali.
In questo secondo, in cui  si sfalsano piani temporali e voci, oltre che dagli animali, un ruolo fondamentale è svolto dalla terra. 
“Perché non so’ riuscito a coltivà le anime, almeno voglio coltivà ‘na terra. Lu Signore mi deve dare qualcosa pure a me”.
La terra del sacerdote, così è chiamato Agapito,   non è la sua. 
E’ un pegno,  è la cicatrice di uno sbaglio: è la sua croce.
La terra è secca e sterile, come l’animo di Agapito. 
Gli alberi non danno buoni frutti.
“Affonda le labbra nell’arancia e ne succhia la polpa. Oltre che dura è aspra, sembra un cadavere privato del sangue. Gli fa schifo. Guarda l’albero da cui è caduta. E’ un albero maledetto: un giorno sembra che il giorno dopo le arance appese saranno ottime, e invece l’indomani stanno a terra putride e mezze grigie, molli, e gli girano attorno minuscoli insetti veloci, come succede coi cani morti.”
Ha una colpa, Agapito. 
Una colpa risalente a tanti anni prima,  in Germania, dove  faceva l’operaio in  Mercedes,  il rovistatore di cassonetti, il mariuolo e il prete.
Don Agapito, il sacerdote.

Ambientato tra la Campania e il Molise, e Stoccarda in Germania  - ma la geografia ha i confini vaghi e grigi ed è metafora delle  zone dove imperano miseria morale ed economica, il romanzo di Piccirillo trae spunto dalla cronaca,  interpretando  in modo visionario il reale:   la mano lunga dello sfruttamento, la connivenza “colposa” e silente,  il ripiegamento in una scorza dura incapace di aprirsi agli altri,  come la terra che anche se zappata e irrigata non ne vuole sapere di produrre frutti.
“Dovevo decidere, ho visto quello che dovevo vedere e allora ho chiuso gli occhi, ma io soffrivo troppo (…)
Sono diventata brava a vivere con gli occhi chiusi.
Mi sono abituata, e quando ti abitui poi finisce pure che ti viene un po’ di felicità.”

Il libro di Piccirillo racconta di Agapito ma anche di altri emigrati e di altri esuli dei sentimenti:  di una donna che soffre con gli occhi aperti e poi decide di chiuderli,  di donne tenute come coniglie all’ingrasso perché si possano vendere i loro frutti,  di un uomo che porta una croce e il soprannome della crudeltà,  di Flori che al suo paese costruiva bambole con il cemento, di un vecchio e una vecchia,  di un Essere di gamba, di un inseminatore.
C’è una redenzione: Agapito cerca di ricomporre la frattura con il passato, ma è come tagliare un ramo di un albero le cui radici sono marce.
“Quando un albero si ammala o sta per morire tutti si affrettano a tagliare i rami come se potessero crescerne di nuovi e migliori.
Invece non è così. Non è mai il ramo, il problema sono sempre le radici. Sono loro ad essere malate, ma non hanno il coraggio di uscire fuori dalla terra e gridarlo a tutti; le radici sono codarde, potrebbero salvare la vita di milioni di rami. Hanno sulla coscienza millenni di alberi e di frutti marciti, ammazzati.”  

Piccirillo usa un linguaggio crudo e terrestre,   si serve di  immagini (e ne abusa talvolta, i serpenti, oh)  che dall’ambito animale  e vegetale restituiscono un senso di decomposizione e di morte, di lotta strenua per la sopravvivenza .
Dove e come ci tocca vivere, mi dico,  pensando a ciò che ha alimentato la sua immaginazione. 
E’ pure la mia terra, la sua.

Eppure, in questo libro qualcosa non quadra. 
Il finale, non quadra. 
Mi chiedo se davvero era questo, quello pensato da Piccirillo, oppure la mano longa dell’editing non abbia suggerito e  imposto  un lieto fine ammorbidente -  l’ammore, l’ammore  vero che trionfa! - almeno sotto il profilo dell’individualità,  perché per il resto, insomma, la redenzione  di Agapito non si fa scrupoli dei cadaveri lasciati in terra, e del serpente mortifero che si magna la coda,  Maurizio Baffo di cane, a guardia del pozzo e della sua terra. 
Non so perché, ma mi viene da pensare che tutto, proprio tutto originariamente dovesse essere stato pensato come spreco, putritudine. 
Anche l’ultimo viaggio.

sabato 13 luglio 2013

Zoo col semaforo - Paolo Piccirillo

E’ uno strano libro.
paolo piccirillo - zoo col semaforo
Un romanzo con una trama ben definita, intervallata da una sfilettata di racconti, “ storie di animali che fanno cose strane, senza motivo, lontane da quelle che per natura quegli animali dovrebbero fare, eppure lo fanno. Perché devono farlo, come se esistesse dentro di loro qualcosa di incontrollabile, che non è l’istinto a cui obbediscono sempre, ma un altro istinto; l’altra faccia dell’istinto.” 
Racconti come avulsi dalla storia, e invece no. 
Uomini come animali. Animali come uomini. 
Raccontare la trama ne sminuirebbe l’impatto, la scia di sensazioni che lascia. 
Cosa dico, che c’è un pitbull che azzanna un bambino, e il pitbull è il rimorso/ricordo di un altro cane e di un altro tempo per Slator/Salvatore? 
Che il pitbull condannato a morte da chi ha assistito all’azzanno viene curato e accolto da un uomo che ha visto morire il proprio figlio azzannato da un altro pitbull? 
Descrivo la desolazione e il dolore e la solitudine che sprizza da uomini come Carmine ‘o schiattamuort e Salvatore/Slator ‘o rugnus, e dalle comparse che vivono nelle lande desolate del Casertano e del villaggio albanese? 
Racconto della poetica possenza di alcuni racconti (la campagna azzurra, il falcopensiero) di-spiegandoli? 
Certo è che per essere un’opera prima è davvero un buon lavoro, un lavoro di “intuizioni”. 
E le intuizioni spesso non hanno parole che possano spiegarle. 
Quello che resta è il senso dell’ineluttabile, un drammatico e cupo senso dell’ineluttabilità dei destini.

lunedì 8 luglio 2013

Oh, boy! - Marie-Aude Murail

Ho sempre pensato che un ottimo modo per distruggere il germe del piacere della lettura nei gggiovani sia quello di dare in pasto ai garzoncelli scherzosi moralissimi mattoncini che li rendano edotti riguardo i problemi del mondo: ci tengono i ragazzini - e fanno bene - alla spensieratezza.
Ma intanto si deve pure farli crescere consapevoli di questo e quello e quell’altro e ancora e ancora.
(i cittadini di domani, eh)
Da tutto sto sproloquio si potrebbe dedurre che “Oh, boy!” non è un libro per ragazzi.
E invece cade a fagiuolo.
A fagiuolissimo.
E’ l’eccezione che conferma la quasi regola.
Sottende tematiche delicatissime e importanti (l’omosessualità e il diritto all’adozione, la violenza domestica, la malattia – e che malattia, marò) con il tono e la leggerezza non tanto della fiaba quanto con quello di una sit-comedy, senza la raffazzonatura e la faciloneria che spesso contraddistingue il genere televisivo (e tantissima letteratura per ragazzi).
E’ forse l’ironia, la chiave di volta che tiene in equilibrio (questo sì, ha del favoloso) una storia che sarebbe fin troppo drammatica e melassosa se non fosse stemperata dalla esuberanza e dalla straordinarietà dei personaggi; è impossibile non affezionarsi ai fratellini Morlevent - il genio, la genietta e l’ingenua bambolina- , e a Bart, il cinico, l’egoista, il bello, lo scumbinato ( tanti cuoricini per Bart).
E’ impossibile chiudere il libro senza provare il rammarico di non poter seguire il vento dei Morlevent, brezza o tempesta, un anno ancora, due, tre, dieci, per verificare se la tenue speranza con la quale si chiude il sipario diventerà lieto fine.

giovedì 4 luglio 2013

Tutti i fuochi il fuoco - Julio Cortázar

Le modalità narrative di "Tutti i fuochi il fuoco" mi hanno ricordano moltissimo quelle della raccolta "Tanto amore per Glenda", dominata dalla fusione e dalla con-fusione tra passato e presente e luoghi distanti, tra sogno e realtà.
Cortázar - Tutti i fuochi il fuoco
Però sono pochi i testi che svicolano dall’impressione del troppo costruito, del forzato, dell’esercizio di sperimentazione letteraria, in particolar modo l’artificio è evidente in quello che dà il titolo alla raccolta e in L’altro cielo, dove il lavoro di montaggio dei piani temporali diversi è troppo svelato e palese, dove la “finzione” è troppo evidente perché possa scattare una sorta di empatia emotiva, di stordimento, di sorpresa, di fascinazione che vada oltre quella del oh, ahh, ma che bravo a scrivere così e cosà.
Ho trovato invece belli e suggestivi “Il sogno di un’isola” che racconta di un’anomala ossessione, e "L’autostrada del Sud". 
A quest’ultimo si sono ispirati anche i registi Godard e Comencini. 
Da una situazione apparentemente ordinaria - un cacchio di traffico sull’autostrada che fa avanzare la spianata di auto di mezzo centimetro al minuto e manco quello per ore e ore intere - si scivola in una sorta di orribile incubo, incastrati per un tempo indefinibile in un non-luogo. 
Non un fine settimana, non un mese, ma intere stagioni durante le quali si alternano afa e neve sui tettucci delle auto che si trasformano in ospedali da campo, in alcove, in bare. 
Un tempo e un luogo sospeso in cui l’uomo si riappropria di una socialità nuova e più profonda. 
(non è possibile vivere da soli) 
E quando l’incubo dell’ingorgo si scioglie e si scioglie la comunità coatta degli automobilisti, resta il rimpianto di aver perso qualcosa, qualcosa che non si potrà mai più riavere, mai più riprovare. 
Solidarietà e amore, forse. 
La capacità di riorganizzarsi, di soprav-vivere fuori dagli schemi, e l’insofferenza al contrario per tutto ciò che è norma.

Comunque. 
Ho avuto un’illuminazione. 
Una specie di bolla verde luminescente seguendo la quale sono– le rivelazioni e le gnosi sono universalmente valide solo per chi è stato illuminato - giunta alla percezione della verità. 
Cortázar è un fama che vorrebbe essere disperatamente un cronopio. 
(le Storie di cronopios e di famas sono la sua opera più bella)