mercoledì 22 agosto 2012

Il resto di niente - Enzo Striano


Romanzo storico classico e tradizionale nella struttura, e lo stesso Striano riconosce il suo debito verso Aristotele, Tasso, Manzoni. 
Linguaggio “barocco”, gonfio, colto, ma incrostato di vivide espressioni dialettali; descrizioni sciorinate per accumulo di particolari. 
La vita di Eleonora Pimentel de Fonseca, raccontata dal suo arrivo a Napoli, ragazzetta vivace e curiosa, alla morte per cappio sanfedista e borbonico. Uno squarcio sulla città, dalla metà del ‘700 al tragico epilogo della Repubblica Napoletana. 
Nulla di particolarmente forte, detto così. 
Ma perché questo romanzo mi ha preso l’anima, mentre i promessi Sposi non li riesco proprio a digerire? 
Basta l’identificazione nella figura femminile, la Lenòr che cade ma si rialza, che è tormentata ma risoluta, che spera ma agisce? 
Basta la familiarità con i luoghi, con le espressioni colorite? 
Basta la possibilità di vedere un ponte tra passato e presente, la persistenza del lazzaro che è sempre uguale a se stesso, non più scalzo, ma con telefonino e motorino, pronto a servire il “re” purchè gli si offra la possibilità “dell’arricchimento” (il saccheggio impunito)? E la persistenza di una classe di intellettuali divisa, autoreferenziale, vibrante di spasmodici slanci ma incapace di progettare il futuro? 
Questo non basta a rendere “Il resto di niente” un romanzo straordinario. 
Nonostante il cupo pessimismo che vi si agita, fra il marciume del cibo e il libertinaggio dei costumi, dionisiaca danza, domina il valore incalcolabile della speranza come atto di fede nella possibilità di cambiare il mondo, di portare il nuovo. Fede totalmente laica, umana. 
E’ questo che rende speciale il romanzo di Striano. Grande metafora sul bisogno degli animi belli di trasformare in meglio il nostro mondo, nonostante le cadute, le incertezze, il dolore. 
Anche se la ragione porta a dire che di tutti gli sforzi non rimane che il resto di niente, dentro, nell’animo, ti sembra di dover raccogliere il testimone. 
Un grumo di dolore e speranza. Miliare.

Necropoli - Boris Pahor


Boris Pahor si riferisce all’esperienza dei campi come al mondo crematorio. 
Nel mondo crematorio la vita è a termine, e il termine è indicato dal fuoco del camino che brucia i corpi e le anime. La dissolvenza fisica, l’odore e il sapore della cenere del camino che impregna l’aria, il ruvido telo a strisce e l’incartapecorito strato di pelle che riveste le ossa, rami secchi da destinare al forno, è la tortura più grande, più della fame, delle umiliazioni morali, delle sofferenze fisiche, dell’agonia. 
E il prigioniero Boris Pahor, sloveno, appartenente alla minoranza riottosa destinata alla dissolvenza, è un infermiere, pertanto privilegiato nel campo. 
Riesce a dare senso alla sua esistenza nel limbo della premorte lavorando alacremente per lenire le sofferenze degli altri. E’ il suo lavoro che dà senso al presente del mondo crematorio, al di là dell’inutile speranza nel futuro, al di là del doloroso annegamento nel passato. 
E paradossalmente l’attaccamento alla vita, si tramuta , nel tempo, in senso di colpa verso la moltitudine dei non sopravvissuti. 
Di straordinario impatto emotivo è il linguaggio: denso, corposo, materico, vera reificazione del passato , RESISTENZA al mondo crematorio il cui progetto aveva destinato l’uomo a trasmutarsi in fumo e polvere. 
Tornando al campo, meta di visitatori, i fantasmi del passato lo tormentano. Ma forte è una consapevolezza, per noi un monito: 
“Ma qui non c’è niente di vivo che potrei portarmi via. Nessuna rivelazione. Al massimo la conferma che non può esistere una divinità buona e onnipresente che sia rimasta testimone muta davanti a questo fumaiolo. E davanti alle camere a gas. No, se c’è qualche divinità, è una divinità che non conosce e non può conoscere distinzione tra il bene e il male. Ma questo, di nuovo e ancora una volta, significa che soltanto l’uomo può dare ordine al mondo in cui vive e cambiarlo in modo che sia possibile realizzarvi le idee buone piuttosto che quelle cattive.”

La camera azzurra - Georges Simenon


Simenon è abilissimo nel tessere la trama come in un giallo, teso e asciutto, mantenendo alta la tensione del lettore fino a che i tasselli della storia si completino, facendo venire alla luce delitti e pene. 
Lo fa attraverso gli occhi di chi si stava beatamente godendo una gratificante relazione senza troppe preoccupazioni e attraverso l’incalzare delle domande di un giudice.

La camera azzurra racconta una storia di amour fou. 
Perché anche se seguiamo lo sconcerto il disorientamento lo sconforto e la sconfitta di Tony Falcone, dall’ultima volta nella camera azzurra alla camera affollata di un tribunale, la vera protagonista assoluta, la dominatrice della storia è Andrèe, la femme fatale e letale. 
Tony Falcone non poteva immaginare quello che sarebbe successo. Cosa c’entra il sesso con l’amore? 
Giséle, la moglie, “L'aveva scelta con cognizione di causa. La donna che desiderava sposare era una esattamente come lei e non un'amante scatenata”, non come Andrèe. 
“Non si passa la vita a letto, in una camera vibrante di sole, abbandonandosi al furore di due corpi nudi. 
Gisèle era la sua compagna, la madre di Marianne, quella che al mattino scendeva per prima ad accendere il fuoco, che teneva la casa pulita e allegra, e che quando lui tornava non gli faceva domande. 
Sarebbero invecchiati insieme, sentendosi sempre più vicini, perché col tempo avrebbero avuto sempre più ricordi in comune. A volte Tony aveva immaginato le loro conversazioni future, quando avrebbero cominciato a farsi vecchi.” 
La moglie è moglie, e l’amante è l’amante. 
Separate da un compartimento stagno che vede la prima incasellata dentro la cura della casa e dei figli e della vecchiaia e dei ricordi, e l’altra dentro il brivido carnale. 
Ed è questo lo scarto che impedisce a Tony di configurare sin da subito il senso delle ultime parole pronunciate nella camera azzurra, il loro peso, e che lo rende indifeso e incapace di reagire di fronte all’evolvere dei fatti, che lo imprigiona nella ragnatela tessuta dalla sua amante.

E poi Simenon dipinge alla perfezione l’inciucio, la massa compatta e indistinta della ggente che murmurea e che sa tutti i fatti di tutti, ed emette giudizi e condanne prima dei giudici, prima dei processi. 
Un bel romanzo ad altissima intensità di introspezione psicologica.

E però ho pensato, a latere: altri tempi. 
In quegli anni sono nati più figli da Ogino- knaus che dai loro padri. 
E ancora. 
Ma davvero ancora adesso la moglie è moglie e l’amante è l’amante?





giovedì 16 agosto 2012

La colazione dei campioni - Kurt Vonnegut


Questo è un libro illustrato. 
I disegnini sono fatti dalla mano di Vonnegut. 
Sono disegnini necessari, altrimenti è facile fraintendere quello che si vuol dire, e allora, se dice che qualcuno ha scritto sulla propria auto che è un bidone, cioè “un’automobile che non andava bene e che nessuno era in grado di riparare”, riporta la scritta gialla dipinta sul cofano del baule e su entrambi gli sportelli , a pennarellone nero a caratteri cubitali (così non si capisce un fischio per pernacchio) e poi, a scanso di equivoci, riproduce un disegno del bidone vero, quello dove nei cartoni animati si infilano i gatti con le lische di pesce in bocca (senza gatti e senza lische, con il coperchio chiuso), per ben differenziare le due cose. 
Così come è necessario disegnare una pistola calibro 38, ovvero “uno strumento il cui unico scopo era di praticare buchi negli esseri umani”, per rendere più esplicito possibile il referente.
Il referente è tutto. Son le cose, mica le idee che contano sul pianeta Terra. 
“E questa, secondo Trout, era la ragione per cui gli esseri umani non erano in grado di respingere le idee anche se cattive: "Sulla Terra, le idee erano simbolo di amicizia o inimicizia. Il loro contenuto non aveva importanza. Gli amici andavano d'accordo con gli amici al fine di esprimere amicizia. I nemici non andavano d'accordo con i nemici al fine di esprimere inimicizia. 
"per centinaia di migliaia di anni le idee dei terrestri, qualunque fossero, non ebbero la minima importanza, dato che non sapevano in ogni caso che farsene. Le idee erano simboli come qualsiasi altra cosa. Pag. 39 
Trout è uno scrittore di fantascienza, anche se i più venduti sono i suoi racconti sulle tope. No, non le femmine dei topi. Le altre. 
E’ anche lo scrittore che compare in Mattatoio n.5, quello a cui crede Billy Pigrim. 
Ed è il suo dannato destino che si creda a quello che scrive. 
Così succede a Dwayne Hoover, che prende per oro colato e verità assoluta le parole scritte nel romanzo “Ora si può dire” . 
“Caro signore, povero signore, coraggioso signore” lesse, sei un esperimento del Creatore dell’Universo. Sei l’unica creatura dell’intero Universo dotata di libero arbitrio. Sei l’unico che debba pensare a cosa fare dopo – e perché farlo. Tutti gli altri sono robot, macchine. 
Alcuni sembrano averti in simpatia, altri in odio, e tu devi chiedertene il perché. Non sono altro che macchine simpatrizzatrici e macchine odiatrici. 
Sei abbattuto, demoralizzato? “ continuò a leggere Dwayne. 
Perché non dovresti esserlo? Naturalmente è stancante dover ragionare sempre in un universo che non è stato fatto per essere ragionevole.” 
E dunque, il povero Dwayne, che già stava tienimi che mi tengo sull’orlo del precipizio, dà proprio di matto. 
(non è mai bene dare troppo credito a certi libri)
Il fatto è, che nel disordine totale del mondo contemporaneo, inquinamento/guerre/condizionamenti/poteredellemerci, risposte a cos’è la vita (oltre a così va la vita) non ce ne sono. 
E non ce ne sono neanche se le si chiede direttamente al creatore, un bizzarro giocoliere. 
"Mi sono reso conto, " riprese Trout, che Dio non è protezionista, così chiunque lo è commette sacrilegio e perde tempo. Hai mai visto uno di quei Suoi vulcani o uragani o trombe marine? Hai mai sentito parlare delle ere glaciali che Lui organizza ogni mezzo milione di anni? E che ne dici del cancro del castagno? Eccoti un bel provvedimento protezionistico. Di Dio, non dell'uomo. Magari, proprio quando avremo ripulito i nostri fiumi, Lui farà invece prender fuoco a tutta la galassia come un colletto di celluloide.”

Philboyd Studge, lo scrittore che genera il romanzo e dunque anche il creatore di tutti i personaggi del libro compreso Trout, con il quale avrà un face to face (falla!), nella premessa dice di averlo scritto per festeggiare il proprio compleanno. 
(toh, ma che combinazione, Studge è nato lo stesso giorno,mese e anno di Vonnegut)
Studge si atteggia a padreterno e fa un po’ come gli pare, mettendo giù una storia piena di divagazioni (la media mondiale era : quindici centimetri e quattro millimetri di lunghezza per quattro centimetri di diametro)* e dissacrazioni, si prende gioco dei valori contemporanei con sarcasmo, e domina e impera sui poveri personaggi con ironia ma anche con un sottile velo di pietà e di compassione.

Sì è molto divertito, mister Vonnegut, questa volta. 
(abbastanza anche io)

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