mercoledì 22 agosto 2012

Necropoli - Boris Pahor


Boris Pahor si riferisce all’esperienza dei campi come al mondo crematorio. 
Nel mondo crematorio la vita è a termine, e il termine è indicato dal fuoco del camino che brucia i corpi e le anime. La dissolvenza fisica, l’odore e il sapore della cenere del camino che impregna l’aria, il ruvido telo a strisce e l’incartapecorito strato di pelle che riveste le ossa, rami secchi da destinare al forno, è la tortura più grande, più della fame, delle umiliazioni morali, delle sofferenze fisiche, dell’agonia. 
E il prigioniero Boris Pahor, sloveno, appartenente alla minoranza riottosa destinata alla dissolvenza, è un infermiere, pertanto privilegiato nel campo. 
Riesce a dare senso alla sua esistenza nel limbo della premorte lavorando alacremente per lenire le sofferenze degli altri. E’ il suo lavoro che dà senso al presente del mondo crematorio, al di là dell’inutile speranza nel futuro, al di là del doloroso annegamento nel passato. 
E paradossalmente l’attaccamento alla vita, si tramuta , nel tempo, in senso di colpa verso la moltitudine dei non sopravvissuti. 
Di straordinario impatto emotivo è il linguaggio: denso, corposo, materico, vera reificazione del passato , RESISTENZA al mondo crematorio il cui progetto aveva destinato l’uomo a trasmutarsi in fumo e polvere. 
Tornando al campo, meta di visitatori, i fantasmi del passato lo tormentano. Ma forte è una consapevolezza, per noi un monito: 
“Ma qui non c’è niente di vivo che potrei portarmi via. Nessuna rivelazione. Al massimo la conferma che non può esistere una divinità buona e onnipresente che sia rimasta testimone muta davanti a questo fumaiolo. E davanti alle camere a gas. No, se c’è qualche divinità, è una divinità che non conosce e non può conoscere distinzione tra il bene e il male. Ma questo, di nuovo e ancora una volta, significa che soltanto l’uomo può dare ordine al mondo in cui vive e cambiarlo in modo che sia possibile realizzarvi le idee buone piuttosto che quelle cattive.”

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