lunedì 19 novembre 2012

Io venìa pien d'angoscia a rimirarti - Michele Mari


Giacomo Leopardi era un licantropo, perciò era ossessionato dalla luna.
Questo è quanto si deduce dal diario di suo fratello. 
Questo è quanto finge sia accaduto nel 1813 Michele Mari, costruendo un racconto fatto di storia e invenzione, strutturato come un diario scritto dalla mano di Carlo Orazio Leopardi.

Dal 9 febbraio al 9 maggio 1813, il quattordicenne affida alle pagine del diario la propria inquietudine, nata dall’osservazione dello strano comportamento del fratello; come in un giallo, Carlo scopre i veri motivi dello studio matto e disperato del fratello alla ricerca di informazioni, fatti, storie e leggende popolari sulla luna – la base del saggio Sopra gli errori popolari degli antichi – , che tanto influenza la terra e gli uomini e da cui Giacomo è attratto in modo morboso.
E’ un contesto, la casa natale del Leopardi fanciullo, in cui il Mari si cala (e fa calare) a meraviglia. 
Il noto - la rigidità dei genitori, la voracità di conoscenza e l’inquietudine del giovane Giacomo, i topois e le opere letterarie - acquista spessore e dinamicità attraverso l’immaginazione (la galleria dei ritratti degli antenati, e sopra tutte la figura di Sigismondo, i giochi tra fratelli, la ginnastica, le ottuse intemperanze della signora madre) 
Si respira la soffocante e castrante pressione dei signora Madre e signor Padre, e la Biblioteca che offriva alle spalle curve dei giovincelli affatto scherzosi l’unico svago, lo studio matto e disperato, sembra quasi un organismo vivente, che lungi dall’offrire vero riposo, diventa ulteriore fonte di turbamento. 
[La sanguinosa infanzia. Quella sì, veramente, povere creature]

L’enorme sfoggio di erudizione (che straordinario balsamo per il Mari) non suona troppo fastidioso in questo libro, in fondo appartiene all’immaginario collettivo legato alla casa Leopardi (ma davvero parlavano così, tra loro, i giovinetti Leopardi??) e poi è funzionale al racconto, storie di licantropi e di grandi inquisitori comprese. 
Quello che mi ha colpito maggiormente in questo libricino è il senso di precarietà legato alla paura dell’ignoto: è la paura di non sapere cosa stia accadendo al proprio fratello che spinge Carlo a scrivere, a documentarsi, a ricercare, è la stessa paura del mistero che scaturisce dal globo argenteo e che genera leggende e miti e forse i licantropi che inquieta Giacomo e si traduce in ossessione. 
Dalla paura, però, alla fine può ci si può sempre difendere tenendo tra le mani un amuleto, una pallina di pane grande come un’albicocca.

Tu non immagineresti di quali mostruosità è capace la mente dell’uomo quando si tratti di deformare il vero, prestandogli que’ colori e quelle fattezze che più ci dilettano o più ci spaventano.»

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mercoledì 22 agosto 2012

Il resto di niente - Enzo Striano


Romanzo storico classico e tradizionale nella struttura, e lo stesso Striano riconosce il suo debito verso Aristotele, Tasso, Manzoni. 
Linguaggio “barocco”, gonfio, colto, ma incrostato di vivide espressioni dialettali; descrizioni sciorinate per accumulo di particolari. 
La vita di Eleonora Pimentel de Fonseca, raccontata dal suo arrivo a Napoli, ragazzetta vivace e curiosa, alla morte per cappio sanfedista e borbonico. Uno squarcio sulla città, dalla metà del ‘700 al tragico epilogo della Repubblica Napoletana. 
Nulla di particolarmente forte, detto così. 
Ma perché questo romanzo mi ha preso l’anima, mentre i promessi Sposi non li riesco proprio a digerire? 
Basta l’identificazione nella figura femminile, la Lenòr che cade ma si rialza, che è tormentata ma risoluta, che spera ma agisce? 
Basta la familiarità con i luoghi, con le espressioni colorite? 
Basta la possibilità di vedere un ponte tra passato e presente, la persistenza del lazzaro che è sempre uguale a se stesso, non più scalzo, ma con telefonino e motorino, pronto a servire il “re” purchè gli si offra la possibilità “dell’arricchimento” (il saccheggio impunito)? E la persistenza di una classe di intellettuali divisa, autoreferenziale, vibrante di spasmodici slanci ma incapace di progettare il futuro? 
Questo non basta a rendere “Il resto di niente” un romanzo straordinario. 
Nonostante il cupo pessimismo che vi si agita, fra il marciume del cibo e il libertinaggio dei costumi, dionisiaca danza, domina il valore incalcolabile della speranza come atto di fede nella possibilità di cambiare il mondo, di portare il nuovo. Fede totalmente laica, umana. 
E’ questo che rende speciale il romanzo di Striano. Grande metafora sul bisogno degli animi belli di trasformare in meglio il nostro mondo, nonostante le cadute, le incertezze, il dolore. 
Anche se la ragione porta a dire che di tutti gli sforzi non rimane che il resto di niente, dentro, nell’animo, ti sembra di dover raccogliere il testimone. 
Un grumo di dolore e speranza. Miliare.

Necropoli - Boris Pahor


Boris Pahor si riferisce all’esperienza dei campi come al mondo crematorio. 
Nel mondo crematorio la vita è a termine, e il termine è indicato dal fuoco del camino che brucia i corpi e le anime. La dissolvenza fisica, l’odore e il sapore della cenere del camino che impregna l’aria, il ruvido telo a strisce e l’incartapecorito strato di pelle che riveste le ossa, rami secchi da destinare al forno, è la tortura più grande, più della fame, delle umiliazioni morali, delle sofferenze fisiche, dell’agonia. 
E il prigioniero Boris Pahor, sloveno, appartenente alla minoranza riottosa destinata alla dissolvenza, è un infermiere, pertanto privilegiato nel campo. 
Riesce a dare senso alla sua esistenza nel limbo della premorte lavorando alacremente per lenire le sofferenze degli altri. E’ il suo lavoro che dà senso al presente del mondo crematorio, al di là dell’inutile speranza nel futuro, al di là del doloroso annegamento nel passato. 
E paradossalmente l’attaccamento alla vita, si tramuta , nel tempo, in senso di colpa verso la moltitudine dei non sopravvissuti. 
Di straordinario impatto emotivo è il linguaggio: denso, corposo, materico, vera reificazione del passato , RESISTENZA al mondo crematorio il cui progetto aveva destinato l’uomo a trasmutarsi in fumo e polvere. 
Tornando al campo, meta di visitatori, i fantasmi del passato lo tormentano. Ma forte è una consapevolezza, per noi un monito: 
“Ma qui non c’è niente di vivo che potrei portarmi via. Nessuna rivelazione. Al massimo la conferma che non può esistere una divinità buona e onnipresente che sia rimasta testimone muta davanti a questo fumaiolo. E davanti alle camere a gas. No, se c’è qualche divinità, è una divinità che non conosce e non può conoscere distinzione tra il bene e il male. Ma questo, di nuovo e ancora una volta, significa che soltanto l’uomo può dare ordine al mondo in cui vive e cambiarlo in modo che sia possibile realizzarvi le idee buone piuttosto che quelle cattive.”

La camera azzurra - Georges Simenon


Simenon è abilissimo nel tessere la trama come in un giallo, teso e asciutto, mantenendo alta la tensione del lettore fino a che i tasselli della storia si completino, facendo venire alla luce delitti e pene. 
Lo fa attraverso gli occhi di chi si stava beatamente godendo una gratificante relazione senza troppe preoccupazioni e attraverso l’incalzare delle domande di un giudice.

La camera azzurra racconta una storia di amour fou. 
Perché anche se seguiamo lo sconcerto il disorientamento lo sconforto e la sconfitta di Tony Falcone, dall’ultima volta nella camera azzurra alla camera affollata di un tribunale, la vera protagonista assoluta, la dominatrice della storia è Andrèe, la femme fatale e letale. 
Tony Falcone non poteva immaginare quello che sarebbe successo. Cosa c’entra il sesso con l’amore? 
Giséle, la moglie, “L'aveva scelta con cognizione di causa. La donna che desiderava sposare era una esattamente come lei e non un'amante scatenata”, non come Andrèe. 
“Non si passa la vita a letto, in una camera vibrante di sole, abbandonandosi al furore di due corpi nudi. 
Gisèle era la sua compagna, la madre di Marianne, quella che al mattino scendeva per prima ad accendere il fuoco, che teneva la casa pulita e allegra, e che quando lui tornava non gli faceva domande. 
Sarebbero invecchiati insieme, sentendosi sempre più vicini, perché col tempo avrebbero avuto sempre più ricordi in comune. A volte Tony aveva immaginato le loro conversazioni future, quando avrebbero cominciato a farsi vecchi.” 
La moglie è moglie, e l’amante è l’amante. 
Separate da un compartimento stagno che vede la prima incasellata dentro la cura della casa e dei figli e della vecchiaia e dei ricordi, e l’altra dentro il brivido carnale. 
Ed è questo lo scarto che impedisce a Tony di configurare sin da subito il senso delle ultime parole pronunciate nella camera azzurra, il loro peso, e che lo rende indifeso e incapace di reagire di fronte all’evolvere dei fatti, che lo imprigiona nella ragnatela tessuta dalla sua amante.

E poi Simenon dipinge alla perfezione l’inciucio, la massa compatta e indistinta della ggente che murmurea e che sa tutti i fatti di tutti, ed emette giudizi e condanne prima dei giudici, prima dei processi. 
Un bel romanzo ad altissima intensità di introspezione psicologica.

E però ho pensato, a latere: altri tempi. 
In quegli anni sono nati più figli da Ogino- knaus che dai loro padri. 
E ancora. 
Ma davvero ancora adesso la moglie è moglie e l’amante è l’amante?





giovedì 16 agosto 2012

La colazione dei campioni - Kurt Vonnegut


Questo è un libro illustrato. 
I disegnini sono fatti dalla mano di Vonnegut. 
Sono disegnini necessari, altrimenti è facile fraintendere quello che si vuol dire, e allora, se dice che qualcuno ha scritto sulla propria auto che è un bidone, cioè “un’automobile che non andava bene e che nessuno era in grado di riparare”, riporta la scritta gialla dipinta sul cofano del baule e su entrambi gli sportelli , a pennarellone nero a caratteri cubitali (così non si capisce un fischio per pernacchio) e poi, a scanso di equivoci, riproduce un disegno del bidone vero, quello dove nei cartoni animati si infilano i gatti con le lische di pesce in bocca (senza gatti e senza lische, con il coperchio chiuso), per ben differenziare le due cose. 
Così come è necessario disegnare una pistola calibro 38, ovvero “uno strumento il cui unico scopo era di praticare buchi negli esseri umani”, per rendere più esplicito possibile il referente.
Il referente è tutto. Son le cose, mica le idee che contano sul pianeta Terra. 
“E questa, secondo Trout, era la ragione per cui gli esseri umani non erano in grado di respingere le idee anche se cattive: "Sulla Terra, le idee erano simbolo di amicizia o inimicizia. Il loro contenuto non aveva importanza. Gli amici andavano d'accordo con gli amici al fine di esprimere amicizia. I nemici non andavano d'accordo con i nemici al fine di esprimere inimicizia. 
"per centinaia di migliaia di anni le idee dei terrestri, qualunque fossero, non ebbero la minima importanza, dato che non sapevano in ogni caso che farsene. Le idee erano simboli come qualsiasi altra cosa. Pag. 39 
Trout è uno scrittore di fantascienza, anche se i più venduti sono i suoi racconti sulle tope. No, non le femmine dei topi. Le altre. 
E’ anche lo scrittore che compare in Mattatoio n.5, quello a cui crede Billy Pigrim. 
Ed è il suo dannato destino che si creda a quello che scrive. 
Così succede a Dwayne Hoover, che prende per oro colato e verità assoluta le parole scritte nel romanzo “Ora si può dire” . 
“Caro signore, povero signore, coraggioso signore” lesse, sei un esperimento del Creatore dell’Universo. Sei l’unica creatura dell’intero Universo dotata di libero arbitrio. Sei l’unico che debba pensare a cosa fare dopo – e perché farlo. Tutti gli altri sono robot, macchine. 
Alcuni sembrano averti in simpatia, altri in odio, e tu devi chiedertene il perché. Non sono altro che macchine simpatrizzatrici e macchine odiatrici. 
Sei abbattuto, demoralizzato? “ continuò a leggere Dwayne. 
Perché non dovresti esserlo? Naturalmente è stancante dover ragionare sempre in un universo che non è stato fatto per essere ragionevole.” 
E dunque, il povero Dwayne, che già stava tienimi che mi tengo sull’orlo del precipizio, dà proprio di matto. 
(non è mai bene dare troppo credito a certi libri)
Il fatto è, che nel disordine totale del mondo contemporaneo, inquinamento/guerre/condizionamenti/poteredellemerci, risposte a cos’è la vita (oltre a così va la vita) non ce ne sono. 
E non ce ne sono neanche se le si chiede direttamente al creatore, un bizzarro giocoliere. 
"Mi sono reso conto, " riprese Trout, che Dio non è protezionista, così chiunque lo è commette sacrilegio e perde tempo. Hai mai visto uno di quei Suoi vulcani o uragani o trombe marine? Hai mai sentito parlare delle ere glaciali che Lui organizza ogni mezzo milione di anni? E che ne dici del cancro del castagno? Eccoti un bel provvedimento protezionistico. Di Dio, non dell'uomo. Magari, proprio quando avremo ripulito i nostri fiumi, Lui farà invece prender fuoco a tutta la galassia come un colletto di celluloide.”

Philboyd Studge, lo scrittore che genera il romanzo e dunque anche il creatore di tutti i personaggi del libro compreso Trout, con il quale avrà un face to face (falla!), nella premessa dice di averlo scritto per festeggiare il proprio compleanno. 
(toh, ma che combinazione, Studge è nato lo stesso giorno,mese e anno di Vonnegut)
Studge si atteggia a padreterno e fa un po’ come gli pare, mettendo giù una storia piena di divagazioni (la media mondiale era : quindici centimetri e quattro millimetri di lunghezza per quattro centimetri di diametro)* e dissacrazioni, si prende gioco dei valori contemporanei con sarcasmo, e domina e impera sui poveri personaggi con ironia ma anche con un sottile velo di pietà e di compassione.

Sì è molto divertito, mister Vonnegut, questa volta. 
(abbastanza anche io)

scaricabile qui:

sabato 21 luglio 2012

Passavamo sulla terra leggeri - Sergio Atzeni


"…come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta." Pag. 24
Come nella mitologia precristiana, un ciclo di eterno ritorno.
Antonio Setzu è un Custode del tempo, e nella finzione narratologica trasmette all’Atzeni la storia delle radici , da quando i danzatori di stelle, fatti prigionieri dagli uomini del mare, si impossessarono della nave senza mai averne governato una e giunsero in Sardegna, M’ag o m’ad as, la terra chiamata così nella lingua antica , fino alla perdita della libertà, dell’autonomia, fino al XIV secolo.
Non è un caso che la storia tramandata dai Custodi del tempo si arresti con la perdita della autonomia politica e con la fine dei Giudicati. 
In fondo, il senso del libro di Atzeri è proprio nella rivendicazione della identità che in qualche modo corrisponde all’autodeterminazione dei Sardi. 
"Non potevamo fermare il ciclo dell'uomo, nessuno può fermarlo. Dovevamo incontrare altri uomini, per crescere. L'incontro ha un costo, pagarlo è inevitabile" 
Ad Atzeni non interessa la storia in senso preciso. 
“Il disegno e il moto delle stelle parola del creatore ignoto, decifrarla massima sapienza. Solo strumento il numero. Il numero, sacro” 
100 e 100, mille e mille; il mese dell’asfodelo o quello delle mandorle aspre.

E' la dimensione collettiva, epica e mitica dell’identità sarda che Atzeri vuole tramandare, che vuole rivendicare attraverso la conservazione della memoria del lunghissimo tempo in cui i Sardi seppero resistere all’invasore, o seppero leggere e interpretare i segni attraverso la “lingua antica”. 
Penso a Lucifero. Non il diavolo, no. 
Penso al bambino che da adulto fu chiamato Uomo e poi portatore di luce. 
Il Lucifero che diffuse il cristianesimo tra i sardi, il cui nome fu trasmesso agli episcopi. 
Anche la figura, anzi le figure di Lucifero sono, nella mitologia di Atzeni, antagoniste all’autorità di Roma. 
San Lucifero è patrono di Cagliari (insieme al più tranquillo Saturnino) e di altre località sarde. 
Ignoravo, fino a quando ho incontrato un amico cagliaritano, che esistesse un santo con questo nome. Addirittura strade, a Lucifero dedicate. 
(resistenza, e ancora resistenza) 
Le figure chiave del racconto sono giudici e judichesse (quante donne autorevoli – è una donna che slega i lacci dei prigionieri sulla nave che approda in Sardegna, è una donna, Eleonora d’Arbas, l’ultima judichessa) 
Erano il cuore della collettività sarda: redimevano contrasti e garantivano i diritti comunitari; di alcuni si è perso il nome, di altri, storicamente esistiti, la vita viene intreccia alla leggenda, e al ritmo stesso della natura. 
Erano eletti dall’assemblea di majores, ma avere dei figli poteva garantire la prosecuzione del diritto di autogovernarsi: se la stirpe dei giudici si perpetrava attraverso la nuova nascita, o la nuova elezione, carestie e calamità si arrestavano, come se il prosieguo della tradizione potesse ripristinare l’ equilibrio positivo tra ambito umano e ambito naturale, come se l’esistenza dei giudici appartenesse al ciclo naturale (il “passavamo leggeri…” che ho riportato ad inizio commento, il titolo del libro)

La narrazione ha il respiro dell’epica, un’epica poetica, non priva però di durezza. 
Vendetta. 
La vendetta, o ri-vendicazione, in tutte le sue sfaccettature permea il Cunto. 
Tutti coloro che si rivolgono ai giudici lo fanno per ri-vendicare qualcosa, i falchi cavano gli occhi per ripagare dal torto, le donne uccidono per vendicarsi e poi ci sono le bardanas, quanta simpatia per le bardanas, le scorrerie per riprendere i frutti della terra che appartiene per atavico diritto. 
Anche i Custodi del tempo, sono in qualche modo giudici, perché sta ad ogni nuovo custode, appresa la storia dal vecchio, tramandarla arricchita degli eventi che “giudicano” degni di essere ricordati. 
Essi sono i garanti e i protettori, e la loro storia sfugge ai rigori della ufficialità.

La memoria a lungo termine quale riconoscimento della matrice dell’identità, il diritto all’ autodeterminazione, la nostalgia di una mitica età dell’oro nella quale i sardi vivevano separati dagli altri, incontaminati e puri, configurano il libro di Atzeni come canto, canto d’amore e di difesa della propria terra.
Tuttavia. 
La riconoscibilità dei luoghi , dei personaggi (anche se rielaborati in modo leggendario), la matrice delle feste popolari che ancora resistono nei Carnevali (re Canciofalli, ad esempio) sicuramente “parlano” ad un sardo in modo più intenso (ed anche extratestuale) di quanto possano a chi sardo non è. 
E’ una storia affascinante, ma non è la mia storia.

E poi. Sembra un libro poetico, ma è il suo "vestito"  ad esserlo. 
E' un libro politico.

scaricabile qui : 

giovedì 21 giugno 2012

Oltremare - Mariangela Sedda


Oltremare c’è la speranza, oltremare c’è la salvezza, oltremare si fa fortuna.
Ma anche no.
“Cara sorella, l’Argentina non è stata per loro quella terra fortunosa che cantavano ad ottave prima di partire ma qui la mala sorte li stava aspettando e si vede che erano destinati a morire senza capelli bianchi e senza soddisfazioni.” pag. 194
Mariangela Sedda ricostruisce uno spaccato di storia italica dal 1913 al 1928 ricorrendo allo stratagemma dell’epistolario tra due sorelle, Grazia e Antonia, l’una partita con il marito per l’America e l’altra rimasta in terra sarda.
E’ attraverso le scarne e rade parole, scritte in un italiano approssimativo venato di espressioni e termini dialettali, che si legge la fatica dell’emigrante, la durezza della vita contadina di chi è rimasto e l’avidità della guerra, la prima guerra mondiale, che inghiotte uomini e i pochi che risputa li restituisce monchi o folli, e infine l’addensarsi della nube fascista che non viene fermata neanche dall’oceano, e censura le preoccupazioni e i timori, affinchè non arrivino oltremare.
Certamente è un epistolario fasullo, costruito da una scrittrice a tavolino.
Ma è verosimile.
(alcune lettere originali di emigranti, raccolte per un lavoro di ricerca sull’emigrazione italiana tra i parenti degli alunni di una scuola media, non erano assai dissimili)
Non so quanto possa piacere ad un lettore “esperto”.
Ma è un epistolario ben congegnato, ed è di sicuro didatticamente utilizzabile, in più di un percorso tematico.


mercoledì 20 giugno 2012

Q - Luther Blissett


Fratelli miei, non ci hanno vinti. Siamo ancora liberi di solcare il mare”.

Q è un romanzo storico nella misura in cui delinea, attraverso il racconto dei suoi protagonisti, fatti e avvenimenti accaduti in Europa tra il 1519 e il 1555: Lutero e la rivolta dei contadini in Germania, i circoli anabattisti, il capillarizzarsi del potere dei banchieri, il dinamismo mercantile delle città dell’Elsa e della Serenissima, gli intrighi delle chiese, l’Inquisizione, la diffusione e la circolazione dei libri a stampa, Carlo V e i re di Francia, la miseria del popolo e la bandiera salvifica della fede .

Q non è solo un romanzo storico. Attraverso il racconto dei protagonisti, emerge lo scontro titanico tra l’ordine e le spinte eversive. Tra chi manovra per la conservazione del potere, per la realizzazione di un “Piano” che miri a controllare e sottomettere popoli e anime e chi lotta per la libertà, con ogni strumento, parola o forcone o sogno.

Q. Qoèlet. L’ecclesiaste, colui che rende vani gli sforzi, la spia, uno e nessuno, la mano che tesse le trame del potere secondo il piano del cardinale Carafa, il suo occhio,il traditore del Giusto. 
Il Giusto è il suo antagonista, l’uomo dai tanti nomi che nel secolo delle lotte religiose è stato dalla parte di chi ha sfidato l’ordine del mondo. E, nonostante le sconfitte, resta fedele all’avversione verso il potere del “Piano”. E come la fenice, rinasce dalle sue ceneri. Nel libro, rinasce come Gert del Pozzo, Lot, Ludovico, Tiziano. Ma rinasce anche adesso.

Q è un romanzo che, nei modi e nelle forme e nel linguaggio, fottuto bastardo, esalta la “disobbedienza”, rendendo il 1500 un secolo vicinissimo ai nostri tempi, così necessariamente bisognoso di movimenti antagonisti all’omogeneizzazione delle coscienze. 

Q è un romanzo collettivo, e risente delle molteplici mani in una non necessaria prolissità e nello stile non uniforme. 
Peccato veniale, tutto sommato.


giovedì 7 giugno 2012

Non avevo capito niente.


Non me lo volevo leggere questo libro qua. 
Di De Silva ne avevo già letti due, e mi era sembrato scrittore paraculo e ammiccatore (e confermo, però stavolta è stato proprio bravo assai) 
Poi, com’è come non è, un amico me lo ha passato (a caval donato certe volte si guarda in bocca) e ho detto ma fammi vedere un poco in bocca a questo cavallo, butto un occhio su due paginette e poi se proprio non se ne scende mica per contratto me lo devo leggere a forza. 
E invece, vedi un poco la Madonna. 
Mi sono divertita, la verità.
Vincenzo Malinconico è un personaggio. 
(e grazie al cazzo, però volevo intendere che è proprio una sagoma ) 
Pensa logorroico, l’avvocato Malinconico. 
Lo fa in una lingua e secondo certi arravugliamenti , e descrivendo persone e luoghi (certi bar dai nomi così lo sai davvero che sono lì solo per il riciclaggio, altro che), verso i quali è stato gioco forza trovare una vicinanza, e poi ci sta più di qualcuno che conosco, che a pezzi, non in forma integrale, mi pare tale e quale a Viciè e ai coabitanti del libro. 
Certi pensieri sono di una verità da far impressione, altri mettono a nudo fuori da denti e liberati da ipocrisie fatti talmente ovvi da essere banali se non li si impupazza - come di norma si fa - con orpellature retoriche e retropsicologiche, altre “verità” sono stroppole buttate a come viene, ma tal è, lo dice lui stesso: 
“Il fatto è che io sono un narratore incoerente. Non si può fare affidamento su di me. M’interessano troppo le chiacchiere incidentali che ti portano da un’altra parte.”
Un piacevolissimo libro di chiacchiere. 
Dove sta scritto che le chiacchiere stanno a zero, o che una chiacchierata con uno che è uno spasso è cosa brutta e ingiusta? Magari tra due giorni mi dimentico tutti i discorsi, ma mi resterà il ricordo della piacevole serata - grazie Vincè, quando ci vediamo un’altra volta? 
Perché, tolti i pensieri dell’avvocato Malinconico, la storia si regge su una grande megapalla che manco se lo vedo con gli occhi miei ci credo che un tipo come lui, viene circuito e sedotto e manco abbandonato (pure la teglia dentro al forno!) dalla più strafiga tra tutte le avvocatesse, si trova a fare suo malgrado l’avvocato in prova per il macellaio dei camorristi, pedinato e protetto dall’angelo custode Tricarico mandato da chiossape chi. 
Epperò. 
In fondo in fondo che ci sta di male a sognare che da un momento all’altro si ribaltino le situazioni, ti ritrovi manco sai come dentro un film che pareva fatto per tutti tranne che per te. 
E’ così che alla fine si resta, con un sorriso compiaciuto e l’animo leggero.



venerdì 25 maggio 2012

Tutta colpa dell'angelo


Quanto sono opinabili certe etichette, pensavo. 
Un libro “da spiaggia” o da “ombrellone”, ad esempio (sotto l’ombrellone mi sono sparata I fratelli Karamazov). 
Però ci provo a etichettarlo questo libro di Moore. 
Libro da stress. 
“Tutta colpa dell’angelo” è un libro da stress, funzionale e terapeutico quando si è stravolti per la fatica mentale da superlavoro, per la noia da routine logorante accumulata fin dentro i cuscinetti adiposi- o, per i più fortunati, nel midollo osseo -, quando si è sopraffatti dal rigurgito acido verso il buonismo e il politically correct.
Ecco, quando così si sta (o quando si è reduci dalla lettura di “Canto di Natale” riportando alterazioni abnormi della glicemia), forse è il momento buono per dedicarsi alla lettura da stress nonchè di invasione: invasione di personaggi bislacchi e sfigati, dall’angelo a vocazione sterminatrice al pipistrello parlante con gli occhiali da sole, dall’agente di polizia fatto e allampanato al biologo sessuofobico, dalla pazza furiosa ex attrice di b-movie guerreschi al suo “narratore”, dallo sciupafemmine cuore infranto all’acidissimo babbo natale morto e risorto, includendo in modo non periferico una schiera di comparse non morte, morti viventi, che al grido di cervello, cervello!!, mhhh, slurp, gnammm, mettono in serio, serissimo pericolo il Natale a Pine Cove, California.
Naturalmente, gli animi sensibili e tormentati, e quelli schizzinosi e schifiltosi, poco inclini al cazzeggio anche in tempo di pace, faranno bene a starsene alla larga. 
Se non dovesse piacere a qualche poco accorto lettore, “poi non date la colpa a me. Io vi ho avvisato” (cit.)



giovedì 24 maggio 2012

Quelli dalle labbra bianche



Quelli dalle  labbra bianche  ce le hanno così per la fame e il freddo.
Sono  i poveri, i “mammutones”, i vinti.
Quelli destinati a curvarsi per fare le cavalline, mentre i ricchi saltano e non si curvano mai.

E’ Daniele Mele, il campanaro, l’unico sopravvissuto, davanti al catafalco dove dopo venti anni  ardono le nove candele in memoria dei compaesani mandati a morire sul fronte russo nel nome della patria ,  a raccontare la guerra, la prigionia, la morte, ma anche il legame tenacissimo con la propria terra, quando “in mattini incredibilmente chiari, le due squadre di ragazzi, i ricchi e i poveri, del tutto immemori di essere nemici (…) ci avventuravamo lontano”, tra i fichidindia rossi, i prati di asfodeli e ferule, le tanche di mirto e lentischio, le querce e i campi di granturco, nei  luoghi dove “era la nostra festa, il nostro paradiso”.

Eppure, il racconto della tragedia si tinge di quell’irresistibile capacità popolare di trasformare in farsa il dramma, di alleggerire la terribilità degli eventi attraverso il grottesco.
“Ci calammo anche noi dentro la fossa. Sembravamo cinque pecore rognose cadute in un fosso. Eravamo entrati a campare la vita dove stava la morte.”
Si legge, il libro di quelli dalle labbra bianche, con gli occhi tremuli, il cuore gonfio e una sorta di amaro sorriso.
E  mi chiedo perché, libri così, debbano essere così poco conosciuti.

Dunque. 

Scaricatavillo.

http://www.sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=626&s=17&v=9&c=4463&id=737