lunedì 19 novembre 2012

Io venìa pien d'angoscia a rimirarti - Michele Mari


Giacomo Leopardi era un licantropo, perciò era ossessionato dalla luna.
Questo è quanto si deduce dal diario di suo fratello. 
Questo è quanto finge sia accaduto nel 1813 Michele Mari, costruendo un racconto fatto di storia e invenzione, strutturato come un diario scritto dalla mano di Carlo Orazio Leopardi.

Dal 9 febbraio al 9 maggio 1813, il quattordicenne affida alle pagine del diario la propria inquietudine, nata dall’osservazione dello strano comportamento del fratello; come in un giallo, Carlo scopre i veri motivi dello studio matto e disperato del fratello alla ricerca di informazioni, fatti, storie e leggende popolari sulla luna – la base del saggio Sopra gli errori popolari degli antichi – , che tanto influenza la terra e gli uomini e da cui Giacomo è attratto in modo morboso.
E’ un contesto, la casa natale del Leopardi fanciullo, in cui il Mari si cala (e fa calare) a meraviglia. 
Il noto - la rigidità dei genitori, la voracità di conoscenza e l’inquietudine del giovane Giacomo, i topois e le opere letterarie - acquista spessore e dinamicità attraverso l’immaginazione (la galleria dei ritratti degli antenati, e sopra tutte la figura di Sigismondo, i giochi tra fratelli, la ginnastica, le ottuse intemperanze della signora madre) 
Si respira la soffocante e castrante pressione dei signora Madre e signor Padre, e la Biblioteca che offriva alle spalle curve dei giovincelli affatto scherzosi l’unico svago, lo studio matto e disperato, sembra quasi un organismo vivente, che lungi dall’offrire vero riposo, diventa ulteriore fonte di turbamento. 
[La sanguinosa infanzia. Quella sì, veramente, povere creature]

L’enorme sfoggio di erudizione (che straordinario balsamo per il Mari) non suona troppo fastidioso in questo libro, in fondo appartiene all’immaginario collettivo legato alla casa Leopardi (ma davvero parlavano così, tra loro, i giovinetti Leopardi??) e poi è funzionale al racconto, storie di licantropi e di grandi inquisitori comprese. 
Quello che mi ha colpito maggiormente in questo libricino è il senso di precarietà legato alla paura dell’ignoto: è la paura di non sapere cosa stia accadendo al proprio fratello che spinge Carlo a scrivere, a documentarsi, a ricercare, è la stessa paura del mistero che scaturisce dal globo argenteo e che genera leggende e miti e forse i licantropi che inquieta Giacomo e si traduce in ossessione. 
Dalla paura, però, alla fine può ci si può sempre difendere tenendo tra le mani un amuleto, una pallina di pane grande come un’albicocca.

Tu non immagineresti di quali mostruosità è capace la mente dell’uomo quando si tratti di deformare il vero, prestandogli que’ colori e quelle fattezze che più ci dilettano o più ci spaventano.»

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