domenica 5 maggio 2013

Treno di notte per Lisbona - Pascal Mercier


“Questa è l’introduzione» disse il libraio e cominciò a sfogliare il libro. «E così, a quanto pare, comincia, capitolo dopo capitolo, a scavare alla ricerca di tutte le esperienze sepolte. Essere l’archeologo di se stesso. Ci sono capitoli di parecchie pagine, e poi altri brevissimi. Qui, per esempio, ce n’è uno composto di una sola frase.» Tradusse: Se è così, se possiamo vivere solo una piccola parte di quanto è 
in noi, che ne è del resto? “

[Il resto è niente]
Il professore Raimund Gregorius è capa e lingue morte. 
Così talmente capa e lingue morte che fuori dall’ambiente accademico non se lo fila nessuno. 
Un giorno gli succede una cosa straordinaria. 
Salva una donna che tenta di suicidarsi gettandosi da un ponte, se la tira dietro, fradicia e zuppa, nel liceo dove insegna, a Berna, sotto gli sguardi attoniti degli allievi. 
La donna è portoghese. 
Pronunciando la parola portugues gli apre gli occhi su un mondo nuovo, un mondo fatto di parole, ma commette un errore. 
Un gravissimo errore. 
Invece di scrivergli sulla fronte un indirizzo, gli scrive un numero di telefono. 
E gli orafi delle parole i numeri non li cacano proprio. 
Sicchè, questo straordinario fatto che gli capita, alla fine del romanzo proprio non conta.

La donna del ponte –spoiler spoiler spoiler - è un bizzarro espediente narrativo piazzato come cavolo a merenda (uammamà, che banalità da romanzetto rosa sarebbe stato raccontare di un colpo di fulmine e della spasmodica ricerca della femme fatale) affinchè il protagonista intraprenda il viaggio di notte per Lisbona, munito di libro, il libro magico di cui sopra donato generosamente dal folletto libraio, a cui aveva rivelato di voler sapere qualcosa di più sul Portogallo.
Il professore parte e si mette alla ricerca. 
Alla ricerca di cosa è arduo dire. 
Di se stesso, del sè che sarebbe potuto essere, del tempo che non c’è più, delle infinite possibilità e impossibilità di rifondarsi, di una lingua pura e nuova. 
In ogni caso e per ogni evenienza la guida è il libro – IL LIBRO – e dunque la ricerca non può che dirigersi in primis verso la ricostruzione di vita morte e miracoli del suo autore, Amadeus Ignazio De Almeida Prado. 
Amadeus oltre al libro scrive mappatone di lettere e di fuglitielli gelosamente conservati dai destinatari e dai custodi della memoria e generosamente tirati fuori - un foglietto alla volta però – e dati in ispirata lettura al professore ad ogni incontro (quanti incontri), affinchè possa ricostruire tassello dopo tassello ogni passo della vita soffertissima e dolente dell’autore. 
Eh, regime totalitario di Salazar, mica la bambagia svizzera nella quale il professore aveva sempre vissuto.

La storia di Amadeus non sarebbe neanche male, se non fosse così impapocchiata dentro la storia del professore errante, se non ci fossero ad ogni piè sospinto quintalate di filosoficheggiamenti e drammoni esistenziali propinati al lettore sotto forma di quaestio così impostate: 
“Esiste Un mistero sotto la superficie dell’agire umano? Oppure gli uomini sono tali e quali ce li mostrano le azioni, così come esse si manifestano nella loro evidenza? Ma che succede quando ci accingiamo a comprendere qualcuno nella sua interiorità? È questo un viaggio che giunge mai al suo compimento? L’anima è un luogo costituito da realtà di fatto?” 
” E davvero gli importava di sapere – gli importava realmente – che cosa pensavano? Il fatto di non saperlo dipendeva dalla sua testa provata dall’insonnia o stava invece per acquisire consapevolezza di una estraneità che era sempre esistita, ma nascosta dietro rituali sociali?” 
“Quand’è che le cose cambiano? Quando quel viluppo comincia a stringerci più forte fino a soffocarci? In che punto si riconosce la sua lieve, ma inflessibile pressione che ci fa capire che non verrà mai meno? Dove lo si riconosce negli altri? E dove in se stessi?” 
“Quanto dura un mese?” 
“La solitudine che paventiamo: in che cosa consiste in fin dei conti? Nel silenzio di rimostranze sottaciute? Nel non dover più avanzare con cautela, trattenendo il respiro, sul campo minato delle bugie coniugali e delle mezze verità fra 
amici? Nella libertà di non avere nessuno davanti a sé quando si pranza? Nell’abbondanza di tempo che si dischiude quando ammutolisce il tambureggiamento degli appuntamenti? Non sono tutte cose meravigliose? Uno stato paradisiaco? In cosa consiste allora il timore? Non si tratta alla fin fine di un timore che sussiste per il solo fatto che non abbiamo esaminato a fondo il suo oggetto?” 
E’ meglio l’uovo o la gallina? (no, quest’ultima l’ho aggiunta io)

Nel libro sono citati esplicitamente “ L’uomo che guardava passare i treni” di Simenon e “Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares” di Pessoa. 
Ebbene, niente di più lontano da entrambi, nonostante vi si riconoscano moltissimi debiti e prestiti.

“Il kitsch è la prigione più insidiosa di tutte. Le sbarre sono ricoperte d’oro – l’oro dei sentimenti irreali e semplificati – tanto che le si scambia per le colonne di un palazzo.“
Parole boomerang: Treno di notte per Lisbona è un libro kitsch.


altre divagazioni

mercoledì 1 maggio 2013

Signora in rosso su fondo grigio - Miguel Delibes


“Io non so immaginare la mamma come una maschera, a sbavare in un ospedale psichiatrico o paralizzata per il resto della vita. Se la morte è inevitabile, non sarà stato meglio così?”

Miguel Delibes

E’ una domanda aperta, la conclusione del romanzo.
(Io ho la mia risposta. Non ci si rassegna alla morte, ma è ancora più  difficile rassegnarsi alla non vita).
Il narratore, un artista in preda al vuoto creativo e affettivo, ripercorre le tappe della sua vita –la malattia e al morte di Ana, sua moglie -  raccontando/raccontandosi  come in una lunghissima lettera rivolta alla figlia,  di ritorno dal carcere, detenuta  per motivi politici ( sono gli anni della fine del franchismo in Spagna).
Il ritratto della signora Ana è quello di una donna “che con la sua sola presenza alleggeriva il peso del vivere”, discreta e gioiosa, un tocco di farfalla.
Ana è madre di una  caterva di figli;  ma a quasi 50 anni è sottile e slanciata, non  un filino di ciccia o una smagliatura, bella e tosta, come una ragazzina.
La malattia le avrebbe  lasciato segni: paralisi del volto, tuttavia sempre meglio di un chilo in più.
Un imprevisto, dopo l’intervento chirurgico, le impedirà di invecchiare.

 “Quando qualcuno di indispensabile ti lascia per sempre, rivolgi gli occhi dentro di te e non trovi altro che banalità, perché i vivi, paragonati ai morti, risultano insopportabilmente banali. (…) Un giorno ti accorgi che chi ti aiutò a essere quello che sei non è più al tuo fianco e allora ti duoli inutilmente della tua ingratitudine. Forse le cose non possono andare diversamente, ma è così difficile da accettare. L’impossibilità di poter recuperare il passato e correggerlo è una delle limitazioni più crudeli della condizione umana. La vita sarebbe più tollerabile se disponessimo di una seconda opportunità.”

Non c’è niente da fare, è così.
La morte cancella i peccati ai defunti  e ne addossa  ai viventi.