“Io non so
immaginare la mamma come una maschera, a sbavare in un ospedale psichiatrico o
paralizzata per il resto della vita. Se la morte è inevitabile, non sarà stato
meglio così?”
E’ una
domanda aperta, la conclusione del romanzo.
(Io ho la
mia risposta. Non ci si rassegna alla morte, ma è ancora più difficile rassegnarsi alla non vita).
Il
narratore, un artista in preda al vuoto creativo e affettivo, ripercorre le
tappe della sua vita –la malattia e al morte di Ana, sua moglie - raccontando/raccontandosi come in una lunghissima lettera rivolta alla
figlia, di ritorno dal carcere,
detenuta per motivi politici ( sono gli
anni della fine del franchismo in Spagna).
Il ritratto
della signora Ana è quello di una donna “che con la sua sola presenza
alleggeriva il peso del vivere”, discreta e gioiosa, un tocco di farfalla.
Ana è madre
di una caterva di figli; ma a quasi 50 anni è sottile e slanciata, non un filino di ciccia o una smagliatura, bella e
tosta, come una ragazzina.
La malattia
le avrebbe lasciato segni: paralisi del volto, tuttavia sempre meglio di un
chilo in più.
Un
imprevisto, dopo l’intervento chirurgico, le impedirà di invecchiare.
“Quando qualcuno di indispensabile ti lascia
per sempre, rivolgi gli occhi dentro di te e non trovi altro che banalità,
perché i vivi, paragonati ai morti, risultano insopportabilmente banali. (…) Un
giorno ti accorgi che chi ti aiutò a essere quello che sei non è più al tuo
fianco e allora ti duoli inutilmente della tua ingratitudine. Forse le cose non
possono andare diversamente, ma è così difficile da accettare. L’impossibilità
di poter recuperare il passato e correggerlo è una delle limitazioni più
crudeli della condizione umana. La vita sarebbe più tollerabile se disponessimo
di una seconda opportunità.”
Non c’è
niente da fare, è così.
La morte
cancella i peccati ai defunti e ne
addossa ai viventi.
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