domenica 31 agosto 2014

Manituana - Wu Ming

Nutro grande ammirazione, stima e rispetto per i Wu Ming. Mi piace l’idea della scrittura collettiva e   dell’anonimato del singolo (si  impedisce alla prepotenza dell’ego di rivendicare il proprio  talento);  plaudo all’iniziativa di rendere fruibili le loro opere, che si possono scaricare  direttamente dal  sito. *
L’idea della cultura fuori dalla commercializzazione, uammamà,  e il rinunciare al successo della propria persona, sono cose  eversive assai, molto più  delle “agitazioni” e degli scherzetti mediatici di Luther Blissett.
(Q, di cui ho scritto qui,  ce l’ho ancora nella mente e nel cuore. )
Dunque la lettura di Manituana è iniziata sotto i migliori auspici: benevola predisposizione, simpatia emotiva e razionale.
Non sono rimasta delusa, ma.
(del ma dico in coda)

Manituana è un romanzo storico (come Q).
Racconta della guerra di indipendenza americana da una prospettiva altra: coloni e inglesi vabbuò, ma gli indiani? Che ruolo avevano gli indiani?
Perché si tende a dimenticare,  io almeno lo faccio, tranne per l’episodio del Boston Tea Party,  che  soggetti (e oggetti) della  guerra di indipendenza americana sono stati anche  loro, gli indiani, che dall’arrivo degli europei  nella parte settentrionale del continente convivevano, bene o male, con i coloni: facevano scambi e commerci, incrociavano le stirpi,  adottavano  sincretismi in cui tenere uniti gli spiriti della natura e il Dio delle chiese . 

Il libro racconta dell’epopea degli Irochesi e in particolare di  Joseph Brant, un Mohawk   realmente esistito,  dal 1775 (il prologo) fino al 1783 (l’epilogo),  di sua sorella Molly, e di tanti altri personaggi, tra cui Philip Lacroix Ronaterihonte, il Grande Diavolo, il personaggio più affascinante del libro, ma anche degli  Highlanders, scozzesi che si trovano al fianco degli indiani a combattere per.
Per cosa? Per Re Giorgio III d'Inghilterra? Per la propria terra? E contro chi? Chi è il nemico?
(Gli Highlanders, guerrieri tra guerrieri, antichi celti sconfitti e costretti all’esilio  tra i guerrieri  sconfitti dal rum e dall’assistenzialismo). 

E’ l’epopea  dei perdenti, incapaci di comprendere la portata dell’odio e della “civilizzazione”.

La parte più mordace del libro è quella in cui si racconta del viaggio in Inghilterra:  Londra è una città fetida e corrotta,  non sono esclusi  né i  titolati, costretti  nella gabbia delle ”etichetta” e  nella menzogna dell’adulazione, né i pezzenti morti di fame.
E poi ci sono i Moloch,  una banda all’arancia meccanica che, travestita da indiani e usando archi e frecce,  dissemina il terrore tra le strade. 
L’assonanza Moloch (il dio distruttivo) e Mohawak,  a cui il capo dei banditi vuole ricondurre una fantomatica discendenza bastarda, è la testa di ponte  del gioco linguistico che punteggia le descrizioni dei bassifondi in cui agisce la banda.  
Occhiosolo Fred locchiava le mignotte da dietro il banco della taverna. Era in un cortile di Tottenham Court Road, in mezzo a quello che chiamavano, con rispetto parlando, «l’isolato dei tagliagole» di Soho. Da vent’anni, pure se priva di insegne, portava il suo nome, Taverna Occhiosolo, cioè da quando Fred era sbarcato per sempre da gusci e legnacci sopra la terraferma, e con i quattro denghi che aveva gagnato tra paghe, ruberie e contrabbandi, s’era comprato quella stamberga per diventare un poldo bigio e ciucco in santa pace, e si fottesse l’acqua salata. L’affare era ganzo, il gagno sicuro, il truciolo in saccoccia allora non faltava, e la ciangotta ce l’aveva giusta per ispirare il rispetto. Il resto l’avevano fatto l’occhio guercio, ché uno buono era abbastanza per locchiare quello che si doveva locchiare, qualche sfregio a mescolare i tratti e l’espressione, la ghigna storta e i quattro zughi rimasti nel truglio, marci e affilati come quelli di un pescecane morto. S’era ritrovato oste. Altri tempi. Poi l’età bigia, loffia, scannata e bastarda aveva irrancidito ossa e budella, costringendo Fred a mettersi sotto padrone, un malcico merdoso e lezzo che conosceva da quando era fringuello e si chiamava James, ora Dread Jack. Teneva una ganga di soma infami, truffa e zavagli. Tutto il giorno a glutare gin e a riempirsi le gaioffe e le palandre di denghi frutto di tagli, infamate e borseggi.





[Fosco Maraini  sentitamente ringrazierà del tributo, penso].
Questo intermezzo rivela che non solo la ricerca storica e il gusto per l’avventura  - in qualche modo Manituana è anche un romanzo di avventura -  interessano ai Wu Ming, ma anche il pariamento e il cazzeggio puro. 

Manituana è un libro corale non solo perché è scritto a più mani, ma  anche per le voci dei personaggi, nessuno escluso: c’è posto per i sogni premonitori del Sachem Tekarihoga  e di Molly, per le preoccupazioni di generali e capitani lealisti e ribelli, persino per il più bastardo e schifoso personaggio del libro, Klug: 
I selvaggi erano in America da prima di tutti, che scoperta.
Anche gli scoiattoli, allora, eppure nessuno chiedeva il loro permesso, prima di abbattere un bosco e coltivarci segale. Klug ne era sempre più convinto: bisognava liberarsi dai musi rossi una volta per tutte. Presto o tardi, un generale gentiluomo con la passione per le squaw si sarebbe convinto che anche gli
indiani avevano diritto alla felicità. Anche i negri. Anche gli scoiattoli e i boschi. Se si andava avanti così, gli Stati Uniti d’America avrebbero avuto un orso per ambasciatore, un negro per ministro e Sorella Zucca seduta in Congresso.”

Però nessuno è interamente cattivo o buono (tranne Klug, che è abominevole come lo sono tutti i razzisti).
La fallacia e la miopia  che guidano le azioni dei singoli e dei gruppi, anche quelle più “ragionate”, sembrano essere la cifra comune del romanzo. 
E’ per questo che Manituana, pur essendomi piaciuto abbastanza, non scalzerà Q dalla mia personale “graduatoria” di gradimento. 
Quello era un libro “contro”, qui c’è un po’ troppo grigio.

Però ha avuto il merito “collaterale” di spingermi ad indagare sulle mille e mille nazioni indiane, più delle isole sul fiume San Lorenzo, la terra di Manituana, dove si ritirano a vivere i superstiti della guerra di indipendenza americana.  
Il Padrone della Vita srotolò la coperta e dentro c’era unaterra di delizie, creata perché tutti vivessero nell’abbondanza e non ci fosse più motivo di combattere. Appoggiò il regalo sulle acque del San Lorenzo, a distanza uguale dalle due sponde, e invitò gli uomini a trasferirsi lì. Per lunghi anni, il popolo del Sud e il popolo del Nord vissero in pace su Manituana. Per parlarsi, mescolarono le loro lingue, così che nessuna incomprensione potesse sorgere. Nacquero i primi figli e molti di essi avevano il padre di un popolo e la madre dell’altro. Ciascuna famiglia voleva che i discendenti imparassero anzitutto la lingua e le abitudini degli avi. Così, mentre i figli crescevano e parlavano la lingua bastarda che non era madre per nessuno, la gente del Nord e la gente del Sud ripresero a odiare. Quelli del Sud tornarono al Sud e quelli del Nord al Nord. Soltanto i figli che non erano di nessun popolo restarono su Manituana, mentre i loro parenti si preparavano a combattere, per decidere chi tra loro avrebbe tenuto l’isola. Le grida e i canti di guerra salirono in alto e spinsero il Padrone della Vita a scendere una seconda volta. Arrivato sulla terra, capì che gli uomini combattevano di nuovo per colpa del suo regalo. Allora raccolse la coperta e la portò via. Ma mentre scostava la tenda del cielo, la coperta si aprì e la terra precipitò nel fiume.

Isolati, franti, rotti: questo il destino degli Irochesi delle  Sei nazioni, il popolo della Lunga casa: la loro storia è il prologo della storia di tutti i nativi: Manituana precipitata nel fiume è  l’anticipo delle riserve in cui tutti gli indiani dell’America  Settentrionale furono poi spinti dagli “americani".


* il sito dei Wu Ming
http://www.wumingfoundation.com/index.htm