Quelli dalle labbra bianche
ce le hanno così per la fame e il freddo.
Sono i
poveri, i “mammutones”, i vinti.
Quelli destinati a curvarsi per fare le cavalline,
mentre i ricchi saltano e non si curvano mai.
E’ Daniele Mele, il campanaro, l’unico sopravvissuto,
davanti al catafalco dove dopo venti anni
ardono le nove candele in memoria dei compaesani mandati a morire sul
fronte russo nel nome della patria , a
raccontare la guerra, la prigionia, la morte, ma anche il legame tenacissimo
con la propria terra, quando “in mattini incredibilmente chiari, le due squadre
di ragazzi, i ricchi e i poveri, del tutto immemori di essere nemici (…) ci
avventuravamo lontano”, tra i fichidindia rossi, i prati di asfodeli e ferule,
le tanche di mirto e lentischio, le querce e i campi di granturco, nei luoghi dove “era la nostra festa, il nostro
paradiso”.
Eppure, il racconto della tragedia si tinge di
quell’irresistibile capacità popolare di trasformare in farsa il dramma, di
alleggerire la terribilità degli eventi attraverso il grottesco.
“Ci calammo anche noi dentro la fossa. Sembravamo
cinque pecore rognose cadute in un fosso. Eravamo entrati a campare la vita
dove stava la morte.”
Si legge, il libro di quelli dalle labbra bianche,
con gli occhi tremuli, il cuore gonfio e una sorta di amaro sorriso.
E mi chiedo
perché, libri così, debbano essere così poco conosciuti.
Dunque.
Scaricatavillo.
http://www.sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=626&s=17&v=9&c=4463&id=737
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