lunedì 15 luglio 2013

La terra del sacerdote - Paolo Piccirillo

Piccirillo è un visionario. 
La terra del sacerdote
Nel primo romanzo, Zoo col semaforo, si  intervallano  e si intersecavano storie di uomini e di animali.
In questo secondo, in cui  si sfalsano piani temporali e voci, oltre che dagli animali, un ruolo fondamentale è svolto dalla terra. 
“Perché non so’ riuscito a coltivà le anime, almeno voglio coltivà ‘na terra. Lu Signore mi deve dare qualcosa pure a me”.
La terra del sacerdote, così è chiamato Agapito,   non è la sua. 
E’ un pegno,  è la cicatrice di uno sbaglio: è la sua croce.
La terra è secca e sterile, come l’animo di Agapito. 
Gli alberi non danno buoni frutti.
“Affonda le labbra nell’arancia e ne succhia la polpa. Oltre che dura è aspra, sembra un cadavere privato del sangue. Gli fa schifo. Guarda l’albero da cui è caduta. E’ un albero maledetto: un giorno sembra che il giorno dopo le arance appese saranno ottime, e invece l’indomani stanno a terra putride e mezze grigie, molli, e gli girano attorno minuscoli insetti veloci, come succede coi cani morti.”
Ha una colpa, Agapito. 
Una colpa risalente a tanti anni prima,  in Germania, dove  faceva l’operaio in  Mercedes,  il rovistatore di cassonetti, il mariuolo e il prete.
Don Agapito, il sacerdote.

Ambientato tra la Campania e il Molise, e Stoccarda in Germania  - ma la geografia ha i confini vaghi e grigi ed è metafora delle  zone dove imperano miseria morale ed economica, il romanzo di Piccirillo trae spunto dalla cronaca,  interpretando  in modo visionario il reale:   la mano lunga dello sfruttamento, la connivenza “colposa” e silente,  il ripiegamento in una scorza dura incapace di aprirsi agli altri,  come la terra che anche se zappata e irrigata non ne vuole sapere di produrre frutti.
“Dovevo decidere, ho visto quello che dovevo vedere e allora ho chiuso gli occhi, ma io soffrivo troppo (…)
Sono diventata brava a vivere con gli occhi chiusi.
Mi sono abituata, e quando ti abitui poi finisce pure che ti viene un po’ di felicità.”

Il libro di Piccirillo racconta di Agapito ma anche di altri emigrati e di altri esuli dei sentimenti:  di una donna che soffre con gli occhi aperti e poi decide di chiuderli,  di donne tenute come coniglie all’ingrasso perché si possano vendere i loro frutti,  di un uomo che porta una croce e il soprannome della crudeltà,  di Flori che al suo paese costruiva bambole con il cemento, di un vecchio e una vecchia,  di un Essere di gamba, di un inseminatore.
C’è una redenzione: Agapito cerca di ricomporre la frattura con il passato, ma è come tagliare un ramo di un albero le cui radici sono marce.
“Quando un albero si ammala o sta per morire tutti si affrettano a tagliare i rami come se potessero crescerne di nuovi e migliori.
Invece non è così. Non è mai il ramo, il problema sono sempre le radici. Sono loro ad essere malate, ma non hanno il coraggio di uscire fuori dalla terra e gridarlo a tutti; le radici sono codarde, potrebbero salvare la vita di milioni di rami. Hanno sulla coscienza millenni di alberi e di frutti marciti, ammazzati.”  

Piccirillo usa un linguaggio crudo e terrestre,   si serve di  immagini (e ne abusa talvolta, i serpenti, oh)  che dall’ambito animale  e vegetale restituiscono un senso di decomposizione e di morte, di lotta strenua per la sopravvivenza .
Dove e come ci tocca vivere, mi dico,  pensando a ciò che ha alimentato la sua immaginazione. 
E’ pure la mia terra, la sua.

Eppure, in questo libro qualcosa non quadra. 
Il finale, non quadra. 
Mi chiedo se davvero era questo, quello pensato da Piccirillo, oppure la mano longa dell’editing non abbia suggerito e  imposto  un lieto fine ammorbidente -  l’ammore, l’ammore  vero che trionfa! - almeno sotto il profilo dell’individualità,  perché per il resto, insomma, la redenzione  di Agapito non si fa scrupoli dei cadaveri lasciati in terra, e del serpente mortifero che si magna la coda,  Maurizio Baffo di cane, a guardia del pozzo e della sua terra. 
Non so perché, ma mi viene da pensare che tutto, proprio tutto originariamente dovesse essere stato pensato come spreco, putritudine. 
Anche l’ultimo viaggio.

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