sabato 28 settembre 2013

Ogni mattina a Jenin - Susan Abulhawa

Questo non è un libro per intellettuali. 
Nessun tipo di ambizione letteraria vi è in questo romanzo, né per quanto riguarda lo stile e il linguaggio, né per quanto riguarda i temi e i contenuti. 
Che Letterarietà può avere un libro che parla di una prepotenza rimossa dal mondo occidentale, di madri e padri che piangono i figli perduti e di solitudini di bambini, di sopraffazioni che nutrono la rabbia, e ancora e ancora, da oltre 4 generazioni? 
(e non è finita, non è ancora finita)

Attraverso le vicende di quattro generazioni della famiglia Muhammad Abulheja, si racconta la storia del popolo palestinese, dal 1941, quando la vita era semplice e serena nel villaggio di ‘Ain Hod, ad est di Haifa, fino al 2002. 
La storia racconta di Al-Nakba, la catastrofe, così come è chiamata l’espulsione dalle terre avvenuta nel 1948; il confluire dei palestinesi negli enormi campi-profughi, a consumare le giornate in attesa di poter tornare a casa, tra gli ulivi. 
Racconta di Al-Naksa, il disastro, la guerra arabo-israeliana del 1967; della guerra del Libano; dell’Intifada. 
Racconta di matrimoni e di nascite e di giochi e di risate e di odori e di ricordi indelebili. 
Racconta di morti e di violenza e di sradicamenti, di rabbia e vendetta e impotenza.

Indigna e fa soffrire, eppure è un libro pieno, stracolmo di amore. 
“Le radici del nostro dolore affondano a tal punto nella perdita che la morte ha finito per vivere con noi, (…) la nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza può far piangere le pietre. E il nostro modo di amare non è diverso, Amal. 
E’ un amore che puoi conoscere solo se hai provato la fame atroce che di notte rode il corpo. Un amore che puoi conoscere solo dopo che la vita ti ha salvato da una pioggia di bombe o dai proiettili che volevano attraversarti il corpo. E’ un amore che si tuffa nudo verso l’infinito. Verso il luogo dove vive Dio.” 
E’ vero, quella araba è una cultura distante: il legame con la terra, con la famiglia allargata, con Dio. 
(una fede che non viene mai meno, anche quando la sordità di dio è conclamata da miliardi di preghiere sciolte tra le bombe e la cenere e la polvere) 
Le vicende raccontate non possono lasciare indifferenti, anche una pietra piangerebbe, pure chi è abituato a “qualunque cosa senti, tienitela dentro”.
(ho pianto)

Dice l’autrice nella nota: 
"Anche se i personaggi di questo libro sono fittizi, la Palestina non lo è, né lo sono gli eventi storici e i dati riportati in questa storia." 
Poco importa se nella finzione narrativa è una sola famiglia a rappresentare l’intera Palestina, rendendo il racconto troppo sbilanciato in senso sentimentale. 
Qualcosa di quel che ha vissuto il personaggio Yussef è successo all'uomo Haamid, qualcos’ altro a Jamaal , a Muhammad e così via. 
In una famiglia un intero popolo.
Il libro è scritto per emozionare, per toccare il cuore, per mordere le intorpidite coscienze occidentali, così distanti, così distratte, così assenti. 
Non vi è neanche acrimonia nei confronti degli usurpatori. 
Un tantino forzatamente, la voglia di riconciliazione che giustifica il personaggio Isma’il/David, si esplicita nel finale che vede convivere, sotto lo stesso tetto, rami dello stesso albero, “un’americana, un israeliano e un palestinese”. 
E nella pagina conclusiva, naturalmente. 
In questa storia non vi sono cattivi. 
Tutte vittime. 
E in un certo senso è così.

Non è un libro per intellettuali: avrebbe avuto  tutti i crismi per sfondare presso il grande pubblico. 
E invece, non è successo. 
Il cacciatore di aquiloni è stato un best sellers (film e annessi e connessi) e Ogni mattina a Jenin non lo è stato. 
Eppure quello, il cacciatore,  è stato pubblicato da Piemme, che certo non ha la capacità pubblicitaria della Feltrinelli. 
Non credo che ci entri tantissimo la trasposizione cinematografica. 
Un pensiero acido e cattivo si insinua, non ci posso fare nulla.
“Nel mondo arabo, la gratitudine è di per se stessa un linguaggio. “Che Dio benedica le mani che mi porgono questo dono”; “La bellezza è nei tuoi occhi che mi vedono graziosa”; “Che il Signore ti doni una lunga vita”, “Che Dio non respinga mai le tue preghiere”; (…) e via dicendo, una serie infinita di ringraziamenti e di benedizioni. Venendo da una cultura simile, ho sempre trovato insufficiente un semplice “grazie”, come se rendesse misera e ingrata la mia risposta.” Pag. 206. 

Che la commozione che trasmette questo libro venga letta e sentita da un miliardo di persone, e faccia da lasciapassare per una nuova consapevolezza della Storia.

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