Moore, autore da cazzeggio per eccellenza, ha avuto un’idea geniale, raccontando la storia del leader maximo del cristianesimo, visto con l’ottica di un amico la cui presenza è cancellata da tutti i vangeli.
Levi detto Biff era un discepolo. Anzi, molto più che un discepolo, più ancora che il primo discepolo: era l’amico del cuore di Gesù sin dall’infanzia.
E’ l’angelo Raziel ( ho controllato, esiste veramente nella gerarchia angelica cherubinica arcangelica, è una specie di messaggero che fa da tramite tra le alte sfere e i terrestrini), nell’immaginario Mooriano personaggio inzallanuto e pure baccalone, a recuperare dalla cenere della cenere il caro Biff, e a costringerlo, trattenendolo in una camera di albergo, a scrivere la sua versione dei fatti accaduti 2000 anni prima.
(mentre in contemporanea, Maria Maddalena detta Maddi scrive la sua)
Ed è proprio nell’interregno tra la nascita e i trent’anni di Gesù, ovvero gli anni cruciali della formazione di ogni essere umano, dove la tradizione pone il vuoto narrativo, che Moore dà il meglio di sé.
Attraverso e con la partecipazione straordinaria di Biff, racconta dell’infanzia di Gesù e dei superpoteri da controllare (mica tutti riescono a incantare i serpentoni), degli scompensi ormonali adolescenziali e dei dubbi esistenziali (sono o non sono il figlio di Dio?), del viaggio verso Oriente alla ricerca di chi possa guidarlo a far bene il ruolo di Messia.
Chi meglio dei re magi avrebbe potuto interpretare il ruolo di maestri?
Saranno loro i maestri di Gesù e del riottoso Levi, che di certo non era mica il Messia, sicchè è ovvio che pur con l’impegno non sarebbe mai riuscito a incartocciarsi in una brocca per il vino, a guarire, a resuscitare, a praticare l’astinenza sessuale.
Tante avventure e tanti incontri faranno i nostri eroi, dalla Persia fino a Kabul per trovare Baldassarre, fine alchemista, esperto in Confucio e Tao (compassione, sobrietà e umiltà) e in Chi e Qi, in Yin e Yang, ma ingrippato e prigioniero di un demone e di uno stuolo di cinesine nella folle ricerca dell’immortalità.
E da Kabul alla Cina, per apprendere dal maestro Gaspare i fondamenti del Buddhismo (compassione e amore incondizionato) e i rudimenti del Kung fu, tra yak e abominevoli uomini delle nevi e abominevoli vecchie delle capanne, fino in India, dove, bypassati i sanguinari devoti di Kalì (scompiscianti le sequenze del travestimento da dea della distruzione) Gesù e Biff incontreranno Melchiorre, l’asceta arroccato nella montagna.
Per un po’ le loro strade si divideranno, ognuno a seguire le proprie attitudini specifiche, Gesù a interiorizzare i principi del Bhagavad Gita, Biff a imparare e praticare il kamasutra.
Moore non risparmia nessuno tra i rappresentanti delle grandi religioni, e meno male che Maometto è venuto dopo, che altrimenti almeno un migliaio e mezzo di fatwe se le sarebbe attirate.
Negli ultimi capitoli, pur interpretando in modo “scanzonato” i tempi della predicazione e della passione, il racconto assume una venatura dolente, melanconica, “ispirata”.
La “blasfemia” in questa storia è solo apparente: si legge un sentimento di profondo rispetto e stima nei riguardi della figura di Gesù, che incarna il meglio del meglio di tutte le religioni precristiane.
Non è certo un miscredente, Moore.
Solo un cazzeggiatore. Ed è per questo che avrei preferito di gran lunga che avesse fermato Biff e il suo racconto/vangelo prima di arrivare in Galilea.
Biff sarebbe potuto morire di sifilide, o anche per una caduta da cammello (da ‘mbriaco, s’intende), e la sua testimonianza quale amico di infanzia di Gesù avrebbe avuto il medesimo valore.
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