venerdì 23 agosto 2013

Vergogna - J. M. Coetzee

In principio pensavo fosse un libro similrothiano, data la coincidenza del nome e della professione del protagonista, il professor David, e delle sue preoccupazioni di ordine sessuale. 
Certo, il professore sudafricano è molto meno focoso, una volta alla settimana con una puttana professionista gli basta e avanza, l’età si fa sentire e la papera galleggia sempre meno. 
Fino a quando non si ingrippa per un’allieva, per la quale il non proprio zelante professore falsifica pure i registi: ella è giovane e bella, e la dà, e se non la dà gliela si prende uguale. 
Uno stupro blando è pur sempre uno stupro, e scoperto il fatto, si innesca lo scandalo. 
Poco importa se nell’ottica del professore è una colpa della quale non ci si può pentire, un impeto dell’istinto, una propaggine dell’amore fou. 
Le sue ragioni non possono valere nell’ambiente dell’università, dove il riconoscimento del fatto non basta, occorre un formale e plateale atto di contrizione e di pentimento. 
Il professore non vuole subire questa sorta di prepotenza - l’atto di dolore non lo può pretendere la società, è un sentire individuale e intimo, ammesso che ci sia – e dunque, allontanato dall’università, leva baracca e burattini e si trasferisce dalla figlia, in campagna, nell’Altro Sudafrica.

Il registro cambia, la storia prende tutta un’altra piega. 
Non ho la minima idea di cosa sia il Sudafrica, al di fuori di ciò che ho letto nei libri e sui giornali e che ho visto in tv e al cinema. 
[Mandela, l’apartheid e la sua fine] 
Di certo le contraddizioni di una società che è stata segnata per anni dalla segregazione razziale, dall’odio e dalla “separazione”, una società che ha utilizzato la violenza – fisica o psicologica – per stabilire il valore delle proprie ragioni, per quanto ingiuste, deve far fatica a liberarsi dei suoi spettri e dalla sua storia.

Un uomo e una donna, due stupri. 
Sono padre e figlia. 
Uno lo compie, mosso da un istinto primordiale di cui non ci si può pentire.
Un fallimento, comunque. 
L’altra lo subisce e lo accetta perché “razionalmente” sente che è necessario ristabilire l’ordine e la gerarchia: una donna sola non può senza protezione vivere in campagna, deve scendere a patti con le regole tribali che altri le impongono, o andare via. 
Un fallimento, comunque. 
C’è chi soccombe scegliendo di non fare parte di un dato mondo – il perbenismo della città - , e chi per fare parte di un altro mondo – la rudezza della campagna - soccombe uguale. 
La vergogna accomuna padre e figlia. 
Tra i due, è difficile dire chi abbia ragione, e chi sia peggiore o migliore. 
Hanno fatto una scelta, entrambi.
Ma davvero si sceglie il proprio destino?

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