lunedì 28 ottobre 2013

Bambini bonsai - Paolo Zanotti

Bambini Bonsai
E’ un romanzo indefinibile, “Bambini bonsai”. 
Se provassi a raccontare la trama, potrebbe sembrare un libro per criaturelli. 
Ma non è un libro per bambini, è un libro sui bambini, è un libro sulla presa di coscienza che “l’infanzia finisce, e che una bambina bonsai non la si può sradicare.” 
Sono le ultime parole del libro.

La bambina bonsai è Sofia. 
Sofia ha occhi come gialli e polposi come albicocche, e il suo viso è riprodotto su ogni cosa: scatole, figurine, poster. 
Sofia è come la principessa addormentata da un malefico sortilegio, e un piccolo scudiero coraggioso e innamorato la sveglierà dal suo sonno, la porterà via dal castello, ad affrontare la vita, anzi, la morte. 
Detto così sembra una fiaba, ma della fiaba il romanzo di Zanotti ha solo la ricchezza delle invenzioni, le magie e la valigia di Petronilla, la capo-banda, il deus ex machina dell’inganno e dello svelamento. 
Ma non è una fiaba, lo scenario sembra quello di un romanzo distopico apocalittico fantascientifico: è ambientato in una Genova franata e compressa, in un tempo forse non troppo remoto dove tutti gli animali sono scomparsi, dove tutte le isole del Pacifico sono sommerse da un mare che sembra un mostro di plastica e munnezza, e dove ai padri, se vittime di incidenti, si sostituiscono i pezzi mancanti con protesi meccaniche; dove il sole brucia e fonde, tant’è che solo nelle serre si potrà vivere, dopo l’ultima pioggia, quella che porta anche il gelo e il freddo, quando anche l’ultimo grande agglomerato della città, il cimitero di Staglieno, affollato di case arroccate tra le tombe, lapidi, guglie e statue, verrà abbattuto. 
Ma non è neppure un romanzo distopico fantascientifico nel senso stretto, perché i protagonisti sono bambini che approfittano della pioggia, un evento terribile e mostruoso per compiere il rito di passaggio dall’infanzia (la prima vissuta quasi tutta in un secchio) all’adolescenza e poi all’età del disincanto, all’età adulta, approfittando del “letargo” , del sonno degli adulti. 
Dice Pepe, il protagonista che racconta del suo tempo della pioggia: 
E allora mi chiedo (…) se anche di fronte alle piogge violente, alle piogge vere, la reazione degli adulti non fosse dettata solo dall’istinto, da un’incapacità naturale di venire a patti con la pioggia, ma anche da qualcosa di più ambivalente, un groppo di emozioni che comprendeva la paura del sovvertimento dei giorni, il lutto per le terre erose e sommerse, la nostalgia di quando si erano sentiti vivi. In fondo, dice qualcuno, la paura non è che la sorella cattiva della nostalgia.” 
I bambini approfittano della “vacanza” dei grandi, riunendosi in bande, per fiondarsi in un mondo alieno e spaventoso - una grande avventura - dove tutto si può fare: occupare le stazioni e giocare a fare i mercanti, rintanarsi in una galleria per fare grandi sfide con le automobili, incontrare il mare, grande mostro morente.

E’ forse un romanzo di formazione, scritto in un modo assolutamente originale, ma è soprattutto un romanzo sul potere straordinario dell’immaginazione che è propria di una certa età, quando tutto è possibile: parlare ed essere amici delle statue e di animali estinti, evocare greggi di pecore e animaletti sui bordi dei secchi; di un tempo in cui anche la paura è attraente, e si possono affrontare le ire della natura foderando le scarpe con il cartone; doti a cui, costretti nella gabbia dell’adultità, dobbiamo rinunciare per seguire sogni e segni più concreti. 
E’ stata quella la mia prima perdita. Bambino cresciuto nell’agglomerato senza varcarne mai i cancelli, fino a quel momento mi ero illuso che crescere significasse solo accumulare cose nuove. Ma ecco che dovevo aprire gli occhi. Prendere atto che a ogni nuova tappa occorre rinunciare ai privilegi di quella precedente.”

E’ un romanzo sulla nostalgia di un tempo che non ritorna e che non si può bloccare, così come non ritornano le nuvole vere nel cielo di serra di Pepe adulto.


venerdì 25 ottobre 2013

Hanna e le altre - Nadia Fusini

Hanna e le altre
“Sembra che abbia fatto un bel compitino, ma proprio un compitino”, mi ha detto un’amica a cui questo saggio di Nadia Fusini non è piaciuto molto.
Non condivido, non del tutto. 
Ora sicuramente so qualcosa di più di Simon Weil, di Rachel Bespaloff (che non avevo mai sentito manco nominare), di Hanna Arendt, e anche di tutte le comparse e dei personaggi di sfondo (tra cui ad esempio la Némirovsky) 
Ne so molto di più di quanto ne avrei potuto sapere se avessi spulciato una fredda pagina di Wikipedia o una pallosissima monografia di qualche professore sbrodolone. 

Ecolalie, ecolalie, è una parola ripetuta nel testo della Fusini.
E’ un libro fitto fitto di rimandi, rimandi che svelano un’ “intelligenza” al femminile nell’interpretare e leggere il mondo e la storia. 
Riporto, tra i tanti che ho segnato, un passo che non è “chiave”, che non spiega e non chiarisce il libro, eppure mi rimbomba in un’eco del tutto personale. 
“E non è affatto superbia, il suo distacco, come molti sbagliando credono; Hannah è umile: Hannah ama il mondo, ha semmai un vero e proprio genio dell’amicizia. Ma così come l’intende lei, l’amicizia non è necessariamente intimità, è piuttosto il sentimento oggettivo di “fare un pezzo di strada insieme”. Nel pensiero, naturalmente.”

domenica 20 ottobre 2013

Di vita si muore - Nadia Fusini

nadia fusini
E’ un saggio passionale, il lavoro della Fusini. 
Il prologo è una delle cose più fascinose che abbia letto, induce una smodata voglia di conoscere Shakespeare, ma di conoscerlo come la propria pelle. 
(come un amante) 
Nadia Fusini analizza in modo viscerale (nell’accezione più ampia del termine) una tragicommedia , Misura per misura, e cinque tragedie: Giulio Cesare, Amleto, Otello, Re Lear, Macbeth; ma vi sono riferimenti all’opera omnia di Shakespeare, alla poesia, alla filosofia, alla critica del 1500 e secoli più e secoli meno. 
Di vita si muore : la passione (la vita) è ciò che spinge a compimento la tragedia. 
“Sì, un uomo muore per il veleno di sostanze malefiche che lo attaccano da dentro. La morte è un’esperienza interna. Così si stupisce Amleto di fronte all’esistenza. 
Ogni occasione lo riporta sempre lì, a constatare che di vita si muore.” 
Dell’opera di Shakespeare viene esaltata la profonda conoscenza e messa in scena degli elementi passionali dell’esistenza umana: la passione della ragione che spinge Bruto ad uccidere Cesare e poi se stesso; la passione del dolore, il lutto, che stravolge Amleto; la lussuria, in “Misura per misura”; l’odio di Iago (il vero deus ex machina, il motore primo nella tragedia Otello); l’ira, la pietà, la paura. 
“E’ vitale morire, è mortale allearsi con l’istinto alla quiete”  
L’analisi della Fusini è puntigliosa, si sofferma non solo sulle azioni e sulle battute, ma anche sulle singole parole, sull’etimologia, sul perché Shakespeare ha scelto proprio un termine specifico e non un sinonimo. Passione al cubo, in questo saggio: la palpabile passione dell’autrice per William, la passione di William per le umane passioni. 
Tuttavia mi difettano i fondamentali, per plaudire o criticare: non ho letto le tragedie di Shakespeare (e manco conosco la poesia e la filosofia e i testi biblici dall’origine della scrittura ai tempi nostri). Da lettrice non edotta, posso solo esprimere le impressioni epidermiche senza entrare nel merito dell’analisi : una eccessiva prolissitudine , un pò di scetticismo quando la lettura in chiave cristiana dei personaggi e delle azioni diventa invasiva e pervasiva (e può pure essere, però a tratti mi sono sembrate proprio esagerazioni). 
Per il resto debordantemente e sinceramente appassionante (come sottotitolo comanda).


venerdì 18 ottobre 2013

L'ubicazione del bene - Giorgio Falco

Falco Giorgio
Pensavo che si trattasse di un romanzo, e invece è una raccolta di racconti. 
Pensavo che fosse un libro di impianto filosofico (quando si dice l’inganno del titolo), ragionamenti intorno all’idea di bene come cosa buona e giusta, e invece la narrazione ha un tono terrestre, quotidiano, e il bene è un bene materiale: una villetta ubicata a Cortesforza.

Un filo conduttore tra i racconti però c’è, ed è quel luogo. 
Non esiste, Cortesforza, borgo residenziale a qualche chilometro da Milano, eppure di Cortesforza sono piene le aree periferiche delle grandi e piccole città. 
Tutte le cose accadono entro venti chilometri. La distanza da casa al lavoro, da casa al supermercato. Venti chilometri. All’inizio lui pensa che quello spostamento sia un piccolo viaggio, dopo dieci ore di lavoro può ricomporre se stesso, ma al semaforo di Trezzano sul Naviglio lui fa parte di una promiscuità aggressiva, volgare, feroce nel cercare il proprio posto nel mondo, conta solo avanzare mezzo metro, allungare i radiatori accaldati per conquistare o difendere la posizione, una distesa di lamiera urlante, lo sbuffo bianco delle marmitte, le gocce cancerose che istillano, ancora prima della malattia, un amarognolo diffuso e incredulo, una distesa di lamiera parlante ora opaca ora illuminata da improvvise schegge di rosso, che tracimano dall’asfalto alle sponde del Naviglio Grande, fino all’acqua nera, che riflette.” 
(pari pari al ritorno a casa via tangenziale o circumvallazione esterna, anche se non ci sta il Naviglio e manco l’acqua nera)

La villetta con il giardinetto, la casarella dove vivere quieti gli anni della pensione se un figlio pazzo non ti porta un boa in casa, il nido dei freschi sposini o la casa dove accogliere l’uccellino degli sposini un poco sereticci, l’appartamento senza balconi, il casale da ristrutturare, il capannone diventano scatole di vetro dove vengono esposte le fratture, le crepe, le voragini della vita contemporanea: acredini e insoddisfazioni, incomprensioni e frustrazioni, perdite e smarrimenti, solitudini. 
Uammamà, e che tristess.

(I racconti sono scritti bene, il taglio e la prospettiva interessanti. La materia narrata, quella, ce l’ho sotto gli occhi e preferirei guardare altrove, è l’altrove che mi serve per non rischiare la neuro, ma tant’è, c’è a chi piace il coltello nella panza e si arricrea pure. 
Io no.)

domenica 13 ottobre 2013

Il vangelo secondo Biff - Christopher Moore

Biff
Moore, autore da cazzeggio per eccellenza, ha avuto un’idea  geniale, raccontando la  storia  del leader  maximo del cristianesimo, visto con l’ottica di un amico la cui presenza è cancellata da  tutti i vangeli.

Levi detto Biff era un discepolo. Anzi, molto più che un discepolo, più ancora che il primo discepolo: era l’amico del cuore di Gesù sin dall’infanzia.

E’ l’angelo Raziel ( ho controllato, esiste veramente nella gerarchia angelica cherubinica arcangelica, è una specie di messaggero che fa da tramite tra le alte sfere e i terrestrini), nell’immaginario Mooriano personaggio inzallanuto e pure baccalone, a recuperare dalla cenere della cenere il caro Biff, e a costringerlo, trattenendolo in una camera di albergo,  a scrivere la sua versione dei fatti accaduti 2000 anni prima. 
(mentre in contemporanea, Maria Maddalena detta Maddi scrive la sua) 

Ed è proprio  nell’interregno tra la nascita e i trent’anni di Gesù, ovvero gli anni cruciali della formazione di ogni essere umano, dove la tradizione pone il vuoto narrativo, che Moore dà il meglio di sé.
Attraverso e con la partecipazione straordinaria di Biff, racconta dell’infanzia di Gesù e dei superpoteri da controllare (mica tutti riescono a incantare i serpentoni), degli scompensi ormonali adolescenziali e dei dubbi esistenziali (sono o non sono il figlio di Dio?), del viaggio verso Oriente alla ricerca di chi possa guidarlo a far bene il ruolo di Messia. 
Chi meglio dei re magi avrebbe potuto interpretare il ruolo di maestri?
Saranno loro  i maestri di Gesù e del riottoso Levi, che di certo  non era mica il Messia, sicchè è ovvio che pur con l’impegno non sarebbe mai riuscito  a incartocciarsi in una brocca per il vino,  a guarire, a  resuscitare, a praticare l’astinenza sessuale.
Tante avventure e tanti incontri faranno i nostri eroi, dalla  Persia fino a Kabul per trovare Baldassarre,  fine alchemista, esperto in Confucio e  Tao (compassione, sobrietà e umiltà) e in Chi e Qi, in Yin e Yang,  ma ingrippato e prigioniero di un demone e di uno stuolo di cinesine nella folle ricerca dell’immortalità.
E da Kabul alla Cina, per apprendere dal maestro Gaspare i fondamenti del Buddhismo (compassione e amore incondizionato) e i rudimenti del Kung fu, tra  yak e abominevoli uomini delle nevi e abominevoli vecchie delle capanne,  fino in India, dove, bypassati  i sanguinari devoti di Kalì (scompiscianti le sequenze del travestimento da dea della distruzione)  Gesù e Biff  incontreranno   Melchiorre, l’asceta arroccato nella montagna. 
Per un po’  le loro strade  si divideranno, ognuno  a seguire le proprie attitudini specifiche, Gesù a interiorizzare i principi del Bhagavad Gita,  Biff a imparare e praticare  il kamasutra.   
Moore non  risparmia nessuno tra i rappresentanti delle grandi religioni, e meno male che Maometto è venuto dopo, che altrimenti almeno un migliaio e mezzo di fatwe se le sarebbe attirate.

Negli ultimi capitoli, pur interpretando in modo “scanzonato”  i tempi della predicazione  e della passione,  il racconto assume una venatura dolente, melanconica, “ispirata”.
La “blasfemia” in questa storia è solo apparente:  si legge un sentimento di profondo rispetto e stima nei riguardi della figura di Gesù, che incarna il meglio del meglio di tutte le religioni precristiane. 
Non è certo un miscredente, Moore. 
Solo un cazzeggiatore. Ed è per questo che avrei preferito di gran lunga che avesse fermato Biff e il suo racconto/vangelo  prima di arrivare in Galilea.
Biff sarebbe potuto  morire di sifilide, o anche per una caduta da cammello (da ‘mbriaco, s’intende), e la sua testimonianza quale amico di infanzia di Gesù avrebbe avuto il medesimo valore. 

domenica 29 settembre 2013

La deriva dei continenti - Russell Banks


Banks Russell
La deriva dei continenti è un fatto scientificamente provato e inarrestabile.
Sul perché le zolle continentali si muovano, le teorie sono diverse e non universali.
Anche le masse umane, i singoli individui, sono spinti al movimento, e le cause,  non le teorie sulle cause,   sono diverse.
Trovare un filo comune a questa “necessità”  davvero appare  un disegno difficile e ambizioso: se Banks ci fosse riuscito, avrebbe scritto un capolavoro.

Nel libro si incrociano  storie di “migranti”.
Il  trentenne riparatore di bruciatori a nafta, Bob Dubois, vive nel New Hampshire:  ha una casetta, una barchetta, una Chevrolet scassata,  “Vota per i democratici, come faceva suo padre, di tanto in tanto va a messa con la moglie e le bambine e crede in Dio come ai politici: sa che esiste, ma non conta su di Lui. Ama la moglie e le figlie. Ha un’amante. Odia la sua vita.”
Lascia la sua vita, portandosi dietro moglie e figlie e Chevrolet, per cercarne un’altra più comoda, più agiata, più consona al  “sogno americano”.
Vanise è una giovane madre haitiana.
Lascia la sua terra, con il figlio attaccato al seno  e il nipote adolescente, non  per ricercare la felicità  ma per  sottrarsi alla morte sicura.
Crede nel potere dei Loa, sa  che il destino degli uomini conta poco di fronte agli invisibili, e l’altra morte, quella della dignità  che subisce durante il viaggio, la rende impermeabile alla sofferenza,  al rullio delle onde e alla brutalità degli uomini.
Sarà ancella  di Ghede e sopravviverà .
Bob e Vanise sono come due continenti alla deriva, anche se le cause del loro migrare sono diverse.
La deriva dell’uno e dell’altra li porterà a cozzare, a scontrarsi,  e dal loro  incontro non verrà fuori che altra desolazione e sofferenza.

L’idea di sovrapporre  l’urgenza della natura umana che spinge uomini a lasciare ciò che sono per una vita altra all'ineluttabilità del movimento  degli elementi  è affascinante,  ma in realtà Banks non è questo che fa.
Le giustappone soltanto.
Quello che tenta di fare, da bravo maestrino, è spiegare  - come se non lo si sapesse – attraverso le storie  di Bob e Vanise, che il mondo  con le luci e gli attici, il sogno di avere e possedere di più, la comodità, il gradino più alto da raggiungere, sono  la causa ultima di tutte le derive dei continenti rappresentati dai  singoli  uomini o da fiumi di uomini. 

La chiusa del libro, l’Envoi, mi è sembrata alquanto fumosa e contraddittoria (nonché presuntuosa).
Scrive Banks:
“Si scrivono libri – romanzi, racconti e poesie – infarciti di dettagli che tentano di spiegarci che cos’è il mondo, come se la nostra conoscenza di persone come Bob Dubois e Vanise e Claude Dorsinville servisse ad affrancare gente come loro. Non servirà. Conoscere i fatti della vita e della morte di Bob non cambia nulla nel mondo. Che noi celebriamo la sua vita e piangiamo la sua morte, lo farà. Gioia e lutto per la vita di altri, perfino vite del tutto inventate – anzi soprattutto quelle – priverà il mondo di parte dell’ingordigia che gli occorre per continuare a essere se stesso. Sabotaggio e sovversione, dunque sono gli obiettivi di questo libro. Và,  mio libro, e contribuisci a distruggere il mondo così com’è.”
( ????)
Ma se è davvero insito nella natura dell’uomo  cercare – o sperare nel cambiamento, -  a che è servito costruire il parallelo con la deriva dei continenti?
Qual è il sabotaggio, qual è la sovversione affidata al libro per privare il mondo  di parte dell’ingordigia che gli occorre per continuare a essere se stesso, e dunque per sottrarsi alla natura insita nell’uomo del cercare il o sperare nel cambiamento?
 Si stia buoni e fermi, sembra dire l’autore, meglio sovvertire l’ordine del mondo  accontentandosi di quello che si è e si ha.
(e sti cazzi.  Non è un caso che le  religioni che pospongono la felicità oltre la vita, sotto forma di paradiso o di giardini fioriti o di karma migliori,  si siano imposte in modo così  globale -  se non lo puoi fare qua, almeno ti si apra il contentino per dove e quando non si sa; stai buono e fermo,  perchè se invece segui la natura, tanti guai ne ricevi, punizioni, punizioni, inferni peggiori di questi!  )
Vanise,  affidandosi ciecamente alla forza di Loa, sopravviverà.
(Ma non vivrà mai più. Sopravviverà soltanto.)
Bob, cercando di far pace con la propria coscienza urlante, morirà.

Le storie di Bob e Vanise hanno una sorta di epicità – eroi negativo l’uno e positiva (? ) l’altra, e  si leggono anche voracemente, si è spinti a sperare  la giusta ricompensa  per Vanise,  non una vita da zombie  attaccata alle vesti del santone,  e  non si riesce ad odiare Bob,  nonostante i suoi errori, perché è un inquieto, tormentato dai un’inquietudine nella quale è addirittura possibile intravedere noi stessi.
Tuttavia, sarebbe stato davvero bello e molto più interessante  approfondire il tema  della deriva dei continenti nel parallelismo tra cieca forza geologica e istinto umano.
Bank non lo ha fatto.
Non credo che il suo libro contribuirà a distruggere il mondo così com’è.

Però sono sicura che se un regista bravo e sufficientemente visionario volesse, snaturandolo, trarne ispirazione, potrebbe fare un qualcosa di nettamente superiore al libro.
Un regista come Darren Aronofsky.








sabato 28 settembre 2013

Ogni mattina a Jenin - Susan Abulhawa

Questo non è un libro per intellettuali. 
Nessun tipo di ambizione letteraria vi è in questo romanzo, né per quanto riguarda lo stile e il linguaggio, né per quanto riguarda i temi e i contenuti. 
Che Letterarietà può avere un libro che parla di una prepotenza rimossa dal mondo occidentale, di madri e padri che piangono i figli perduti e di solitudini di bambini, di sopraffazioni che nutrono la rabbia, e ancora e ancora, da oltre 4 generazioni? 
(e non è finita, non è ancora finita)

Attraverso le vicende di quattro generazioni della famiglia Muhammad Abulheja, si racconta la storia del popolo palestinese, dal 1941, quando la vita era semplice e serena nel villaggio di ‘Ain Hod, ad est di Haifa, fino al 2002. 
La storia racconta di Al-Nakba, la catastrofe, così come è chiamata l’espulsione dalle terre avvenuta nel 1948; il confluire dei palestinesi negli enormi campi-profughi, a consumare le giornate in attesa di poter tornare a casa, tra gli ulivi. 
Racconta di Al-Naksa, il disastro, la guerra arabo-israeliana del 1967; della guerra del Libano; dell’Intifada. 
Racconta di matrimoni e di nascite e di giochi e di risate e di odori e di ricordi indelebili. 
Racconta di morti e di violenza e di sradicamenti, di rabbia e vendetta e impotenza.

Indigna e fa soffrire, eppure è un libro pieno, stracolmo di amore. 
“Le radici del nostro dolore affondano a tal punto nella perdita che la morte ha finito per vivere con noi, (…) la nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza può far piangere le pietre. E il nostro modo di amare non è diverso, Amal. 
E’ un amore che puoi conoscere solo se hai provato la fame atroce che di notte rode il corpo. Un amore che puoi conoscere solo dopo che la vita ti ha salvato da una pioggia di bombe o dai proiettili che volevano attraversarti il corpo. E’ un amore che si tuffa nudo verso l’infinito. Verso il luogo dove vive Dio.” 
E’ vero, quella araba è una cultura distante: il legame con la terra, con la famiglia allargata, con Dio. 
(una fede che non viene mai meno, anche quando la sordità di dio è conclamata da miliardi di preghiere sciolte tra le bombe e la cenere e la polvere) 
Le vicende raccontate non possono lasciare indifferenti, anche una pietra piangerebbe, pure chi è abituato a “qualunque cosa senti, tienitela dentro”.
(ho pianto)

Dice l’autrice nella nota: 
"Anche se i personaggi di questo libro sono fittizi, la Palestina non lo è, né lo sono gli eventi storici e i dati riportati in questa storia." 
Poco importa se nella finzione narrativa è una sola famiglia a rappresentare l’intera Palestina, rendendo il racconto troppo sbilanciato in senso sentimentale. 
Qualcosa di quel che ha vissuto il personaggio Yussef è successo all'uomo Haamid, qualcos’ altro a Jamaal , a Muhammad e così via. 
In una famiglia un intero popolo.
Il libro è scritto per emozionare, per toccare il cuore, per mordere le intorpidite coscienze occidentali, così distanti, così distratte, così assenti. 
Non vi è neanche acrimonia nei confronti degli usurpatori. 
Un tantino forzatamente, la voglia di riconciliazione che giustifica il personaggio Isma’il/David, si esplicita nel finale che vede convivere, sotto lo stesso tetto, rami dello stesso albero, “un’americana, un israeliano e un palestinese”. 
E nella pagina conclusiva, naturalmente. 
In questa storia non vi sono cattivi. 
Tutte vittime. 
E in un certo senso è così.

Non è un libro per intellettuali: avrebbe avuto  tutti i crismi per sfondare presso il grande pubblico. 
E invece, non è successo. 
Il cacciatore di aquiloni è stato un best sellers (film e annessi e connessi) e Ogni mattina a Jenin non lo è stato. 
Eppure quello, il cacciatore,  è stato pubblicato da Piemme, che certo non ha la capacità pubblicitaria della Feltrinelli. 
Non credo che ci entri tantissimo la trasposizione cinematografica. 
Un pensiero acido e cattivo si insinua, non ci posso fare nulla.
“Nel mondo arabo, la gratitudine è di per se stessa un linguaggio. “Che Dio benedica le mani che mi porgono questo dono”; “La bellezza è nei tuoi occhi che mi vedono graziosa”; “Che il Signore ti doni una lunga vita”, “Che Dio non respinga mai le tue preghiere”; (…) e via dicendo, una serie infinita di ringraziamenti e di benedizioni. Venendo da una cultura simile, ho sempre trovato insufficiente un semplice “grazie”, come se rendesse misera e ingrata la mia risposta.” Pag. 206. 

Che la commozione che trasmette questo libro venga letta e sentita da un miliardo di persone, e faccia da lasciapassare per una nuova consapevolezza della Storia.

giovedì 26 settembre 2013

Noi del Rione Sanità - Antonio Loffredo

Il libro non ha “valore letterario”. 
E’ la testimonianza, un po’ retorica (gli obiettivi formativi prefissati) e un po’ appassionata, di un parroco che è stato chiamato a “gestire” una comunità e un territorio difficili, e che ha trovato nella cultura la chiave di volta del cambiamento. 
E’ la testimonianza di un parroco che se avesse fatto solo un terzo delle cose che scrive di aver fatto, meriterebbe una statua d’oro .
Ne ha fatte più di un terzo (le altre le devo verificare). 

http://www.catacombedinapoli.it/index.asp

Certo, la Sanità non è un agglomerato di celle con niente attorno se non altre celle e strade e munnezza, un piccolo vantaggio Don Antonio pure ce l’ha avuto, però chissà come mai prima nessuno ci aveva pensato alla storia ai monumenti alle tradizioni, alla cultura che è lievito che può dare il pane.

Tanti preti che blaterano solo, e pure a dire messa sopra l’altare ci vanno con la scorta (ma non solo i preti) dovrebbero imparare dal racconto di questa esperienza qual è la differenza tra il dire e il fare. 
Di mezzo non c’è solo il mare, ma la dignità.

sabato 14 settembre 2013

La schiuma dei giorni - Boris Vian

Vian Boris

Per entrare nel mondo di Vian e del suo romanzo occorre destrutturarsi. 
Rimuovere ogni “normale” concezione di spazio e di causa-effetto, per addentrarsi in una prospettiva apparentemente a-logica . 
Vian concepisce un mondo totalmente alieno, incuneato dentro un linguaggio che si muove per suggestioni. Associazioni di idee assolutamente stranianti. 
“un’uniforme e una catena che brillavano come nasi freddi”. 
“ imitando (…) il volo di un cucù di pastafrolla” .

A descriverlo con due parole lo definirei un romanzo floreale. 
Timido spunta, sboccia rigoglioso, impudico, e si ripiega su se stesso, appassendo e rinsecchendosi fino a cadere polverizzato. 
Non vi è assenza di storia, anzi. 
Ciccino suo, costruisce una storia che è vera perché l’ha scritta lui - Vian si dedica il libro “Per me, Ciccino mio” - e perché, al di là dei surrealismi, dice la verità . 
La schiuma dei giorni racconta la parabola di un amore. Anzi, di più d’uno, perché, per Vian , ciò che conta è l’amore in tutte le sue forme, anche in quella ossessiva di Chick il collezionista di cimeli.

L’inizio, le case e il paesaggio si dilatano a dismisura , le finestre accolgono due soli che illuminano le piastrelle e riverberano in gocce solide. L’ansia da innamoramento si materializza nelle cose, nel cibo, nella musica, nel piacere dell’invenzione (oh, il pianocktail, triste destino). 
Nicolas non si accontenta mica, vero cuoco- gourmet. Ma Chick e Alise, Colin e Chloè iniziano la strada di coppia seguendo traiettorie diverse, che terminano entrambe in un baratro doloroso. L’una vinta dalla malattia, evento naturale, fiore che distrugge fiori, la ninfea nel polmone. 
L’altra vinta dalla monomania, inaridita dall’ossessione per un “oggetto”. 
Che sia il collezionismo e il fanatismo verso l’eminenza culturale Jean- Sol Partre , è solo un dettaglio, non trascurabile, ma è un dettaglio. L’anarchismo di Vian non preserva alcun mito. 
E durante questo tempo, il tempo della malattia e della monomania, fiocca la critica alla società. Il formalismo della religione, il lavoro che soffoca e annichilisce l’uomo, la grettezza di medici e bottegai, la cecità del burocratichese e delle forze dell’ordine. 
E l’epilogo. Case che si rimpiccioliscono quasi fino ad implodere, cuori strappati, fiamme e fuoco, fossati che inghiottono anima e lacrime.

Tristissimo e bellissimo. 
Lo avrei apprezzato anche solo per il godimento prodotto dalle invenzioni linguistiche e dallo spirito anarchico, e invece mi è toccato pure emozionarmi.

venerdì 13 settembre 2013

Trilobiti - Breeze D'J Pancake

Trilobiti è la raccolta degli unici 12 racconti di un giovane scrittore americano morto suicida. 
I protagonisti sono minatori, contadini, benzinai, gente che si arrangia come può: è il proletariato  di un’America  non lontana dalle grandi città moderne e vivaci, ma rinchiusa tra le montagne, per molti versi ancora arcaica; i personaggi sembrano bloccati  in una sorta di incapacità di movimento, di mutazione, di evoluzione.
Quasi vivono con rassegnazione il loro destino immutabile: sono inselvatichiti, anzi  selvatici , selvaggi e primordiali nelle azioni – la caccia,  lo sventramento delle prede, la lotta, la violenza verbale nei pochi radi discorsi – o restano incastrati  nel ricordo di qualcuno o di qualcosa, incatenati ad un momento del passato.
Sento che la mia paura si allontana in cerchi concentrici attraverso il tempo, per un milione di anni”. 
Trilobiti viventi. 

Le notizie biografiche su Pancake, i lati ombrosi del suo carattere, il suicidio a 26 anni, sono tali che, inevitabilmente,  attorno all’autore e al suo libro si sia costruito una sorta di culto.
(il culto del rimpianto, il manifesto della disperazione)
A me, la verità, l’opera prima e unica di Pancake  non sembra il capolavoro acclamato da molti. 
Tra tutti, solo alcuni racconti mi sono piaciuti davvero – Una stanza per sempre, L’attaccabrighe, La mia salvezza.

Ho sentito l’odore di troppo acerbo, come sentieri appena tracciati: racconti di legno verde.  

lunedì 9 settembre 2013

Nella gabbia - Henry James

Nella gabbia c’è una telegrafista. 
Chi invia i telegrammi, o compra i francobolli per inviare lettere, è gente dell’alta borghesia e della nobiltà. 
Sono i ricchi, quelli che possono permettersi di comunicare a distanza all’inizio del XX secolo. 
Ed è a loro, con invidia mascherata a parole da disprezzo, che la telegrafista mira. 
Vorrebbe essere una di loro. 
La telegrafista coglie tra le migliaia di parole da contare, anche quelle che nascondono intrighi amorosi, tracce adulterine, galanterie sconvenienti. 
La sua fervida fantasia, o si immagina o si muore, la porta a credersi parte indispensabile e utilissima nella catena degli altrui intrallazzi: lei sa cose, decripta segreti. 
Mentre tiene in mano senza troppo entusiasmo il fidanzamento con il droghiere - che squallore, una vita da trascorrere nella modestia illuminata da una lampada a petrolio – costruisce giganteschi castelli di aria fritta, sperando, senza tuttavia essere troppo sfacciata - il perbenismo vittoriano si insinua nei ranghi della bassa borghesia più che altrove – che si avveri il sogno del balzo sociale, un matrimonio con un capitano, ad esempio. 
Ma i telegrammi rimandano solo straccetti di appuntamenti, il suo credere di sapere si rivela fallace quanto il suo sogno.

Pensavo alla terribilità della gabbia. 
Non come luogo di lavoro, ma come gabbia delle aspirazioni. 
Come avrebbe potuto cambiare la vita della telegrafista, se non attraverso un matrimonio “interessante”? 
Quanto sarebbe stato disdicevole esser zitella, per lei, piuttosto che prendere un marito il droghiere solo perché ne fa richiesta e ha una condizione economica non peggiore della sua, e che delusione e senso di pochezza, allora, rispetto alla propria esistenza. 
I movimenti femministi cominciavano a far sentire la propria voce, già allora. 
Eppure la telegrafista non vede nessuna altra forma di realizzazione personale se non quella legata all’ascesa economica e sociale, così come la sua amica fiorista, che frequenta le case delle nobilsignore più per accalappiare i single che per vantare la propria creatività. 
Che brutti tempi, erano quelli.

Però, a pensarci bene, anche adesso, eh. 
Di telegrafiste è pieno ancora il mondo, purtroppo. 
Sono sicuramente più sfacciate, ma tant’è, il risultato non cambia.

martedì 3 settembre 2013

La casa dei normali - Francesco Manarini

SantaWikipedia dice che “Per distopia (o antiutopia, pseudo-utopia, utopia negativa o cacotopia) s'intende una società indesiderabile sotto tutti i punti di vista. Il termine, da pronunciarsi "distopìa", è stato coniato come opposto di utopia ed è soprattutto utilizzato in riferimento alla rappresentazione di una società fittizia (spesso ambientata in un futuro prossimo) nella quale le tendenze sociali sono portate a estremi apocalittici.”

“La casa dei normali” è un libro iperdistopico. 
Fondato su una struttura esclusivamente dialogica, priva di qualunque pausa descrittiva, mette in scena la vita quotidiana della famiglia Rovato. 
Madre, padre, due figli, abitanti in una zona geograficamente identificabile come Padania centrale, i Rovato sono una famiglia normale. 
Si salutano tra moglie e marito con bacio bacio, i figli litigano per chi debba vedere la tv, a scuola ci sono le solite sbullonate tra ggiovini, la madre risponde al telefono e apre la porta che il resto della famiglia si rompe di alzarsi dal divano. 
Cose normali, insomma.
Solo che un domani normale dominato ancora di più dal mercato e dalla pubblicità, anche i nomi di battesimo si possono cambiare previa domanda e accettazione dello sponsor, sicchè la signora Sara, come già han fatto i suoi figlioli (i gggiovani anche nel futuro sono sempre avanti) fa la richiesta e prende Reebook come nome, anche se la forza dell’abitudine le costerà cara e amara. 
In un domani normale dominato dalla forma piuttosto che dalla sostanza l’informazione è globale, ma su canale unico, le elezioni si svolgono in modo rapido e indolore attraverso gli sms, le ronde hanno mandato di sparare a vista per legittima difesa contro rumeni, slavi, calabresi , marocchini, cingalesi, senegalesi, siciliani, ucraini. 
(urca, sarei salva! Terrona ma non abbastanza) 
Quello che atterra di più, è che la famiglia Rovato e contorni sono perfettamente integrati, e direi felici, se non fosse che anche ai normali manca sempre qualcosa e per loro c’è sempre qualche rogna, come ad esempio una salatissima sanzione per mancata ostensione del crocifisso in cucina.

Un libro che inquieta, insomma, perché i germi del possibile domani sono tutti nel presente, a partire dal linguaggio sincopato e stereotipato, gallo piuttosto che fico, ma assai simile allo slang che si usa su feisbucc tra i tredicenni di adesso. 
(una chicca l’incapacità di Rolex nel riuscire a pronunciare una parola fuori dall’ordinario, intratimpaniche)
Melma suina, mi verrebbe da dire, ma non lo dico per resistenza, io che non sono affatto una inguaribile ottimista ma sotto sotto spero in un futuro migliore dove la ragione possa prevalere sull’ignoranza, la giustizia imporsi sull’illegalità e la sopraffazione, eccetera eccetera, già adesso tengo normalmente i capelli appizzati e lo stomaco perforato, non ho altro da fare che cercarmi un pizzo di montagna , un faro, un atollo, un eremo di clausura – ammesso che ce ne sia ancora qualcuno - dove trascorrere la vecchiaia.

venerdì 23 agosto 2013

Vergogna - J. M. Coetzee

In principio pensavo fosse un libro similrothiano, data la coincidenza del nome e della professione del protagonista, il professor David, e delle sue preoccupazioni di ordine sessuale. 
Certo, il professore sudafricano è molto meno focoso, una volta alla settimana con una puttana professionista gli basta e avanza, l’età si fa sentire e la papera galleggia sempre meno. 
Fino a quando non si ingrippa per un’allieva, per la quale il non proprio zelante professore falsifica pure i registi: ella è giovane e bella, e la dà, e se non la dà gliela si prende uguale. 
Uno stupro blando è pur sempre uno stupro, e scoperto il fatto, si innesca lo scandalo. 
Poco importa se nell’ottica del professore è una colpa della quale non ci si può pentire, un impeto dell’istinto, una propaggine dell’amore fou. 
Le sue ragioni non possono valere nell’ambiente dell’università, dove il riconoscimento del fatto non basta, occorre un formale e plateale atto di contrizione e di pentimento. 
Il professore non vuole subire questa sorta di prepotenza - l’atto di dolore non lo può pretendere la società, è un sentire individuale e intimo, ammesso che ci sia – e dunque, allontanato dall’università, leva baracca e burattini e si trasferisce dalla figlia, in campagna, nell’Altro Sudafrica.

Il registro cambia, la storia prende tutta un’altra piega. 
Non ho la minima idea di cosa sia il Sudafrica, al di fuori di ciò che ho letto nei libri e sui giornali e che ho visto in tv e al cinema. 
[Mandela, l’apartheid e la sua fine] 
Di certo le contraddizioni di una società che è stata segnata per anni dalla segregazione razziale, dall’odio e dalla “separazione”, una società che ha utilizzato la violenza – fisica o psicologica – per stabilire il valore delle proprie ragioni, per quanto ingiuste, deve far fatica a liberarsi dei suoi spettri e dalla sua storia.

Un uomo e una donna, due stupri. 
Sono padre e figlia. 
Uno lo compie, mosso da un istinto primordiale di cui non ci si può pentire.
Un fallimento, comunque. 
L’altra lo subisce e lo accetta perché “razionalmente” sente che è necessario ristabilire l’ordine e la gerarchia: una donna sola non può senza protezione vivere in campagna, deve scendere a patti con le regole tribali che altri le impongono, o andare via. 
Un fallimento, comunque. 
C’è chi soccombe scegliendo di non fare parte di un dato mondo – il perbenismo della città - , e chi per fare parte di un altro mondo – la rudezza della campagna - soccombe uguale. 
La vergogna accomuna padre e figlia. 
Tra i due, è difficile dire chi abbia ragione, e chi sia peggiore o migliore. 
Hanno fatto una scelta, entrambi.
Ma davvero si sceglie il proprio destino?

mercoledì 21 agosto 2013

Trinacria Park - Massimo Maugieri

L’idea non era proprio malvagia, immaginare che sull’isola di Montelava - una piccola trinacria di fronte alla Trinacria reale - si costruisca un parco tematico che riproduce la storia e la cultura dell’isola madre, con tanto di Etna minore che erutta in sintonia con l’Etna maggiore, di messa in scena di episodi della storia siciliana (i fatti di Portella della Ginestra, ad esempio) e supporre che la stessa avidità e follia che distruggono la madre annientino la sua filiazione ipermoderna. 
Ma il modo in cui la storia è stata montata, i personaggi che ingombrano in modo quasi imbarazzante la trama, e non ultimo la scrittura – elementare, Watson – non mi hanno per niente convinto. 
Ecco, anche i nomi stessi dei personaggi. 
Ho pensato ai ragazzini che non sanno costruire storie senza assegnare nomi. 
Il bambino non può esistere nella connotazione astratta di bambino (universale), deve essere il bambino Pasquale, il bambino Michele (particolare).

La “particolarità”, in questo caso resta comunque una particolarità di superficie, limitata a "esagerare" le caratteristiche formali dei personaggi - attori o attorucoli, politici e politicanti, imprenditori e arrivisti, insomma il jet set della munnezza. 
Nessuna introspezione psicologica che possa fare "eco", e quanto al movente delle azioni, o alla seppur "fantascientifica" conclusione, vabbuò, meglio sorvolare.

sabato 17 agosto 2013

Il tessitore di vite - Titti Marrone

Titti Marrone è una giornalista. Ha scritto per il Mattino di Napoli per molti anni. 
Conosce bene, e si vede, il mondo delle redazioni. 
(Il personaggio del romanzo che ritengo più "credibile" è proprio una giornalista.) 
Il libro è ispirato ad una storia vera, ad una notizia di cronaca 
Nella postfazione la Marrone  dice che la   notizia  rivelava di una donna che aveva venduto tutti i suoi 14 figli: 
“Ci colpì tutti, ma via via, nel corso della giornata, venne soffocata da avvenimenti che la fecero scolorire. Sopraffatta da politica, economia, nera, subì quello scivolamento all’indietro che la portò ad essere confinata in una delle ultime pagine. 
Ma a me parve forte. Pensai che volesse farsi narrare e non dovesse andare sprecata. Ho provato a farlo, convinta come sono che si dovrebbe sempre scrivere di ciò che si ha sottomano, scegliendo le storie da raccontare tra le cose vicine e tangibili.” 
Mah. 
Una dichiarazione di intenti che mi lascia perplessa. 
Sempre? 
E la fantasia, l’invisibile? 
E’ uno dei modi del raccontare, non il modo. 

Comunque. 
Non me ne frega un cippone di spoillerare, tanto il libro non è un giallo. 
Il perché e il percome della vendita sono giusto abbozzati, l’interesse della Marrone è nell’effetto che il fatto ha su chi è stato venduto ed ha scoperto di sapere che non è quello che pensava di essere.
Il sangue non è acqua, ma quasi. 
E’ un tessuto connettivo allo stato liquido costituito quasi dal 90% da acqua. 
(dici niente) 
Il sangue non è acqua, pare che in tutto il libro questo sia il moto ispiratore, tranne nel finale, dove vivvaddio, si lascia intravedere che genitori e figli si è tali solo perché si vive da genitori e da figli, non per un meccanismo puramente biologico. 
(E fratelli e sorelle lo si è per lo stesso motivo) 
Il tessitore di vite è Riccardo, uno dei figli venduti, che scoperto il magagnone, si prende la briga di ritrovare i fratelli (alcuni) per “ricomporre” la famigghia di sangue. 
Però trovo che il motivo forte della storia si sia in realtà annacquato in un bisogno secondario, ovvero raccontare le vite dei personaggi, le sei singole storie: quella di Riccardo il tranquillo (e ci mancherebbe, casa a Bacoli nel verde e vista mare, famiglia da mulino bianco), quella di Massimo l’antropologo professore esimio in piena crisi esistenziale e professionale, quella di Caterina la sociologa professoressa esimia in piena crisi esistenziale e professionale, quella di Lia la giornalista (Titti Marrone) in piena crisi esistenziale e professionale, quella di Miranda la nemesi, madre di una figlia comprata, in piena crisi esistenziale, che chi campa di rendita e di soldi spasi al sole almeno si risparmia la crisi professionale, e Pietro in drammaticissima crisi esistenziale e professionale, perché fare il venditore di mine antiuomo ed essere scoperto dalla figlia peace and love può pure produrre qualche scombussolamento.

Insomma. 
Date le sei vite, mi spiego perché nessuno dei personaggi abbia avuto la reazione che avrei avuto io, ovvero mandare affanculo senza alcun ripensamento o dubbio il fratello ritrovato.

mercoledì 14 agosto 2013

Una donna spezzata - Simone de Beauvoir

Una donna spezzata è il titolo del primo dei tre racconti che compongono il libro. 
Gli altri due sono L’età della discrezione e Monologo. 
Tre storie diverse, tre donne diverse: il filo rosso che le unisce è il tradimento , reale o avvertito come tale, che innesca una serie di rimurginazioni sul senso della propria identità, granitica veste che si sbriciola di fronte all’evento.
La protagonista del primo racconto, Monique, cornificata dal marito, incartandosi sempre più in tentativi fallimentari di recupero, vive anche l’abbandono. 
“Mi ha mentito!” 
Nel secondo racconto, è il figlio a “tradire” la madre, dinamica intellettuale sessantenne . 
“Ma questa volta sono indignata che non mi abbia tenuta al corrente dei suoi progetti. Indignata e preoccupata. “ 
Nel terzo racconto, uno stizzoso e acido monologo che dura una notte, la notte di capodanno, il “tradimento” della donna che narra era stato determinato dal suicidio della figlia, portandosi dietro una serie di drammatiche conseguenze. 
“ero pulita pura intransigente. Sono stata così fin dall’infanzia l’avevo nel sangue: non barare.”
Mi ha mentito. Mi ha ingannata. Ho sempre detto la verità. 

Sono queste le frasi che mi sono rimbalzate più e più volte nella mente. 
Cosa determina il fallimento, la sconfitta, lo spezzarsi di queste tre donne? 
E’ solo il comportamento “scellerato” degli altri, sono soltanto vittime, o anche carnefici di se stesse? 
Alla menzogna, all’assenza di verità, al “tradimento” da parte delle persone su cui avevano costruito la propria esistenza - il marito, il figlio che si voleva a propria immagine e somiglianza, la figlia che si suicida lasciando un biglietto con la richiesta di perdono rivolta al padre - si contrappone, ad accentuare il senso di disorientamento e di perdita, il percepire se stesse come assolutamente trasparenti, assolutamente esplicite, sincere, vere, autentiche. 
(Nude. Dunque indifese)

Mi è tornata in mente la questione della stanza della Woolf. 
Nessuno può bastarsi da solo (vabbuò, qualche eccezione c’è). 
Però un riparo dove “coprirsi”, una stanza in cui “nascondersi” di tanto in tanto, un luogo intimo e segreto e riservato in cui nessuno può avere accesso, ecco, quello davvero è necessario per poter da lì ripartire e ricostruirsi quando il resto della casa va in frantumi. 
Altrimenti non restano che i cocci e il proprio cadavere sotto i calcinacci.

mercoledì 17 luglio 2013

A che punto è la notte? - Fruttero & Lucentini

A che punto è la notte? 
La notte è fonda e senza luna. 
E’ una condizione immutata e immutabile, dato il brancolare degli uomini tra l’apparenza e la sostanza. 
Guardare non significava vedere, vedere non significava capire.” 

Questo è il nodo fondamentale del giallo di Fruttero e Lucentini: un classico nel genere, in quanto gli elementi narratologici tipici ci sono tutti, dal delitto (anzi due, anzi tre, anzi di più), all’investigatore (anzi più di uno, ma Santamaria impera), agli indizi e falsi indizi.
Ma F&L vanno oltre: mescolano cielo e terra, ambizioni e ritrosie, solitudini e condivisioni, buoni e cattivi, mafiosi e poliziotti, vamp svampite e commissari etici, galoppini e animelle perdute, stenografe dei pensieri e studiosi di barbe posticce. 
Eh, sì, un mondo di pazzi, ormai, una notte insensata e torbida come questa fanghiglia che inzaccherava capricciosamente i rossi, i verdi, gli azzurri, i gialli orgogliosamente partoriti dal Colosseo, da tutti i Colossei del mondo, e ridimensionati da un po' di neve e di pioggia alla loro primigenia condizione di ferraglia dipinta, ferraglia Citroen, ferraglia Fiat, ferraglia Volkswagen, ferraglia Ford, ferraglia Porsche, ferraglia Toyota, ferraglia piena di spinterogeni e scatole del cambio e carburatori e pistoni e cinghie, tubi, tubetti, tubicini... Un insensato, un assurdo ammasso: dove però un bravo meccanico sapeva mettere le mani, avvitare, congiungere, rimontare, collegare.” 
La ferraglia è veramente ferraglia, tolta la cromatura. 
I re sono nudi, altro che voli pindarici e gnosi buone solo alle fanfole.

Un bel libro, nonostante la mole, nonostante la caratterizzazione un po’ sopra le righe dei personaggi (dall’ateo commissario Santamaria – che cognome evocativo, cazzarola! - che s’intrippa in un unidirezionale dialogo mistico, al Don Pezza , arlecchino a servizio dell’ambizione e della follia), nonostante l’inverosimiglianza della faccenda. 
[che poi, la realtà. Chi avrebbe mai creduto se non l’avesse visto coi propri occhi che un primo ministro potesse far passare una escortina per la nipote del Presidente di un altro Stato?]

Un bel libro soprattutto per la non troppo sottile pietà verso l’umana incapacità di andare a parare da qualche parte, per il misterioso dolore che l’attraversa alla ricerca di qualcosa che dia senso, che sia senso, che sia luce.

lunedì 15 luglio 2013

La terra del sacerdote - Paolo Piccirillo

Piccirillo è un visionario. 
La terra del sacerdote
Nel primo romanzo, Zoo col semaforo, si  intervallano  e si intersecavano storie di uomini e di animali.
In questo secondo, in cui  si sfalsano piani temporali e voci, oltre che dagli animali, un ruolo fondamentale è svolto dalla terra. 
“Perché non so’ riuscito a coltivà le anime, almeno voglio coltivà ‘na terra. Lu Signore mi deve dare qualcosa pure a me”.
La terra del sacerdote, così è chiamato Agapito,   non è la sua. 
E’ un pegno,  è la cicatrice di uno sbaglio: è la sua croce.
La terra è secca e sterile, come l’animo di Agapito. 
Gli alberi non danno buoni frutti.
“Affonda le labbra nell’arancia e ne succhia la polpa. Oltre che dura è aspra, sembra un cadavere privato del sangue. Gli fa schifo. Guarda l’albero da cui è caduta. E’ un albero maledetto: un giorno sembra che il giorno dopo le arance appese saranno ottime, e invece l’indomani stanno a terra putride e mezze grigie, molli, e gli girano attorno minuscoli insetti veloci, come succede coi cani morti.”
Ha una colpa, Agapito. 
Una colpa risalente a tanti anni prima,  in Germania, dove  faceva l’operaio in  Mercedes,  il rovistatore di cassonetti, il mariuolo e il prete.
Don Agapito, il sacerdote.

Ambientato tra la Campania e il Molise, e Stoccarda in Germania  - ma la geografia ha i confini vaghi e grigi ed è metafora delle  zone dove imperano miseria morale ed economica, il romanzo di Piccirillo trae spunto dalla cronaca,  interpretando  in modo visionario il reale:   la mano lunga dello sfruttamento, la connivenza “colposa” e silente,  il ripiegamento in una scorza dura incapace di aprirsi agli altri,  come la terra che anche se zappata e irrigata non ne vuole sapere di produrre frutti.
“Dovevo decidere, ho visto quello che dovevo vedere e allora ho chiuso gli occhi, ma io soffrivo troppo (…)
Sono diventata brava a vivere con gli occhi chiusi.
Mi sono abituata, e quando ti abitui poi finisce pure che ti viene un po’ di felicità.”

Il libro di Piccirillo racconta di Agapito ma anche di altri emigrati e di altri esuli dei sentimenti:  di una donna che soffre con gli occhi aperti e poi decide di chiuderli,  di donne tenute come coniglie all’ingrasso perché si possano vendere i loro frutti,  di un uomo che porta una croce e il soprannome della crudeltà,  di Flori che al suo paese costruiva bambole con il cemento, di un vecchio e una vecchia,  di un Essere di gamba, di un inseminatore.
C’è una redenzione: Agapito cerca di ricomporre la frattura con il passato, ma è come tagliare un ramo di un albero le cui radici sono marce.
“Quando un albero si ammala o sta per morire tutti si affrettano a tagliare i rami come se potessero crescerne di nuovi e migliori.
Invece non è così. Non è mai il ramo, il problema sono sempre le radici. Sono loro ad essere malate, ma non hanno il coraggio di uscire fuori dalla terra e gridarlo a tutti; le radici sono codarde, potrebbero salvare la vita di milioni di rami. Hanno sulla coscienza millenni di alberi e di frutti marciti, ammazzati.”  

Piccirillo usa un linguaggio crudo e terrestre,   si serve di  immagini (e ne abusa talvolta, i serpenti, oh)  che dall’ambito animale  e vegetale restituiscono un senso di decomposizione e di morte, di lotta strenua per la sopravvivenza .
Dove e come ci tocca vivere, mi dico,  pensando a ciò che ha alimentato la sua immaginazione. 
E’ pure la mia terra, la sua.

Eppure, in questo libro qualcosa non quadra. 
Il finale, non quadra. 
Mi chiedo se davvero era questo, quello pensato da Piccirillo, oppure la mano longa dell’editing non abbia suggerito e  imposto  un lieto fine ammorbidente -  l’ammore, l’ammore  vero che trionfa! - almeno sotto il profilo dell’individualità,  perché per il resto, insomma, la redenzione  di Agapito non si fa scrupoli dei cadaveri lasciati in terra, e del serpente mortifero che si magna la coda,  Maurizio Baffo di cane, a guardia del pozzo e della sua terra. 
Non so perché, ma mi viene da pensare che tutto, proprio tutto originariamente dovesse essere stato pensato come spreco, putritudine. 
Anche l’ultimo viaggio.

sabato 13 luglio 2013

Zoo col semaforo - Paolo Piccirillo

E’ uno strano libro.
paolo piccirillo - zoo col semaforo
Un romanzo con una trama ben definita, intervallata da una sfilettata di racconti, “ storie di animali che fanno cose strane, senza motivo, lontane da quelle che per natura quegli animali dovrebbero fare, eppure lo fanno. Perché devono farlo, come se esistesse dentro di loro qualcosa di incontrollabile, che non è l’istinto a cui obbediscono sempre, ma un altro istinto; l’altra faccia dell’istinto.” 
Racconti come avulsi dalla storia, e invece no. 
Uomini come animali. Animali come uomini. 
Raccontare la trama ne sminuirebbe l’impatto, la scia di sensazioni che lascia. 
Cosa dico, che c’è un pitbull che azzanna un bambino, e il pitbull è il rimorso/ricordo di un altro cane e di un altro tempo per Slator/Salvatore? 
Che il pitbull condannato a morte da chi ha assistito all’azzanno viene curato e accolto da un uomo che ha visto morire il proprio figlio azzannato da un altro pitbull? 
Descrivo la desolazione e il dolore e la solitudine che sprizza da uomini come Carmine ‘o schiattamuort e Salvatore/Slator ‘o rugnus, e dalle comparse che vivono nelle lande desolate del Casertano e del villaggio albanese? 
Racconto della poetica possenza di alcuni racconti (la campagna azzurra, il falcopensiero) di-spiegandoli? 
Certo è che per essere un’opera prima è davvero un buon lavoro, un lavoro di “intuizioni”. 
E le intuizioni spesso non hanno parole che possano spiegarle. 
Quello che resta è il senso dell’ineluttabile, un drammatico e cupo senso dell’ineluttabilità dei destini.

lunedì 8 luglio 2013

Oh, boy! - Marie-Aude Murail

Ho sempre pensato che un ottimo modo per distruggere il germe del piacere della lettura nei gggiovani sia quello di dare in pasto ai garzoncelli scherzosi moralissimi mattoncini che li rendano edotti riguardo i problemi del mondo: ci tengono i ragazzini - e fanno bene - alla spensieratezza.
Ma intanto si deve pure farli crescere consapevoli di questo e quello e quell’altro e ancora e ancora.
(i cittadini di domani, eh)
Da tutto sto sproloquio si potrebbe dedurre che “Oh, boy!” non è un libro per ragazzi.
E invece cade a fagiuolo.
A fagiuolissimo.
E’ l’eccezione che conferma la quasi regola.
Sottende tematiche delicatissime e importanti (l’omosessualità e il diritto all’adozione, la violenza domestica, la malattia – e che malattia, marò) con il tono e la leggerezza non tanto della fiaba quanto con quello di una sit-comedy, senza la raffazzonatura e la faciloneria che spesso contraddistingue il genere televisivo (e tantissima letteratura per ragazzi).
E’ forse l’ironia, la chiave di volta che tiene in equilibrio (questo sì, ha del favoloso) una storia che sarebbe fin troppo drammatica e melassosa se non fosse stemperata dalla esuberanza e dalla straordinarietà dei personaggi; è impossibile non affezionarsi ai fratellini Morlevent - il genio, la genietta e l’ingenua bambolina- , e a Bart, il cinico, l’egoista, il bello, lo scumbinato ( tanti cuoricini per Bart).
E’ impossibile chiudere il libro senza provare il rammarico di non poter seguire il vento dei Morlevent, brezza o tempesta, un anno ancora, due, tre, dieci, per verificare se la tenue speranza con la quale si chiude il sipario diventerà lieto fine.

giovedì 4 luglio 2013

Tutti i fuochi il fuoco - Julio Cortázar

Le modalità narrative di "Tutti i fuochi il fuoco" mi hanno ricordano moltissimo quelle della raccolta "Tanto amore per Glenda", dominata dalla fusione e dalla con-fusione tra passato e presente e luoghi distanti, tra sogno e realtà.
Cortázar - Tutti i fuochi il fuoco
Però sono pochi i testi che svicolano dall’impressione del troppo costruito, del forzato, dell’esercizio di sperimentazione letteraria, in particolar modo l’artificio è evidente in quello che dà il titolo alla raccolta e in L’altro cielo, dove il lavoro di montaggio dei piani temporali diversi è troppo svelato e palese, dove la “finzione” è troppo evidente perché possa scattare una sorta di empatia emotiva, di stordimento, di sorpresa, di fascinazione che vada oltre quella del oh, ahh, ma che bravo a scrivere così e cosà.
Ho trovato invece belli e suggestivi “Il sogno di un’isola” che racconta di un’anomala ossessione, e "L’autostrada del Sud". 
A quest’ultimo si sono ispirati anche i registi Godard e Comencini. 
Da una situazione apparentemente ordinaria - un cacchio di traffico sull’autostrada che fa avanzare la spianata di auto di mezzo centimetro al minuto e manco quello per ore e ore intere - si scivola in una sorta di orribile incubo, incastrati per un tempo indefinibile in un non-luogo. 
Non un fine settimana, non un mese, ma intere stagioni durante le quali si alternano afa e neve sui tettucci delle auto che si trasformano in ospedali da campo, in alcove, in bare. 
Un tempo e un luogo sospeso in cui l’uomo si riappropria di una socialità nuova e più profonda. 
(non è possibile vivere da soli) 
E quando l’incubo dell’ingorgo si scioglie e si scioglie la comunità coatta degli automobilisti, resta il rimpianto di aver perso qualcosa, qualcosa che non si potrà mai più riavere, mai più riprovare. 
Solidarietà e amore, forse. 
La capacità di riorganizzarsi, di soprav-vivere fuori dagli schemi, e l’insofferenza al contrario per tutto ciò che è norma.

Comunque. 
Ho avuto un’illuminazione. 
Una specie di bolla verde luminescente seguendo la quale sono– le rivelazioni e le gnosi sono universalmente valide solo per chi è stato illuminato - giunta alla percezione della verità. 
Cortázar è un fama che vorrebbe essere disperatamente un cronopio. 
(le Storie di cronopios e di famas sono la sua opera più bella)

domenica 30 giugno 2013

Madre notte - Kurt Vonnegut

Madre notte è la fittizia autobiografia di Howard W. Campbell jr, internato nel carcere di Gerusalemme in attesa di essere processato dalla Repubblica di Israele per crimini di guerra. 
Ma chi è veramente Howard W. Campbell jr.? 

E’ solo la figura intellettuale di spicco della propaganda antisemita e nota voce della radio nazista, o, come sostiene, un agente dello spionaggio americano che, attraverso la modulazione vocale, informa gli alleati dei movimenti dei tedeschi? 
A me non importa. In entrambi i casi è una figura biasimevole. 
Dando per buona la sua versione dei fatti, ovvero che è una spia al soldo degli americani, è biasimevole ugualmente. Fa dell’inautenticità della vita la sua personale modalità di relazione con il mondo. Campbell aveva la sua ragione di vita nello Stato di due, nella relazione con la moglie Helga. Disprezzava il resto del mondo, offuscato dal sublime miracolo di una fede senza dubbi, che non riconosce le sue intrinseche contraddizioni. La falsità, l’inganno come codice di vita. “Non mi sono mai detto posso fare a meno di questa o di quella realtà”. 
Spie, ingannatori sono anche le persone più vicine a Campbell, l’amico Heine Schilaknecht, l’innamorata Resi, il vicino di casa Kraft . 
Poi un’idea guizzante come un’anguilla s’insinua, e guardi oltre i personaggi che vivono il libro, cogli il mondo in cui essi agiscono. Ed è un mondo orribile. 
Tutti sanno e sono - se non complici - indifferenti. 
Campbell riferisce rispetto alle idee antisemite che propagandava alla radio nazista: “non ci credevo, sapevo fin troppo bene di dire cose stupide, distruttive, e così ridicole da essere perfino oscene”. 
Ma tanti ci hanno creduto, o hanno fatto finta di niente. 
Madre notte non è solo il riferimento tratto dal Faust di Goethe che Campbell attribuisce a se stesso. 
Madre notte è il dominio dell’indifferenza, dell’oblio dell’evidenza, il dissolversi della chiarezza e dell’onestà. 
La notte cala troppo spesso sull’anima e sulla mente degli uomini, che fanno qualunque cosa per uscirne vivi, mentendo o seguendo braccia forti da cui si può essere stritolati, nascondendosi negli angoli, appiattendosi ai muri. 
A me tutto questo non piace affatto. Non mi piace la fede senza domande e soprattutto non mi piacciono l’assenza di coerenza, la mancanza di coraggio, l’indifferenza e l’indifferenziato.  
Tra bene e male c’è differenza. 
E si può scegliere. 
Voglio credere che si possa sempre scegliere tra bene o male. 
Campbell, lei è colpevole, in ogni caso.